SPECIALE VENEZIA 70 – “Joe”, “Wolfskinder” e “La moglie del poliziotto”
Barbara Sorrentini
Figli senza padri, orfani, abbandonati o dimenticati. È la materia che accomuna alcuni film di Venezia70. In particolare due tedeschi e uno americano.
"Joe" di David Gordon Green (Concorso) tratto dal romanzo di Larry Brown, si svolge in Texas, in quella parte di America abitata dai perdenti, dai losers che si nutrono di alcool e violenza, tra catapecchie e cumuli di oggetti distrutti. Con barbe e unghie lunghe e sporche e fucili. Nicolas Cage presta il corpo muscoloso e tatuato a Joe, anche lui un poco di buono, a capo di un manipolo di uomini arruolati per avvelenare alberi da tagliare, tra i boschi della periferia, di un territorio che è già periferia. Finché sulla strada di Joe arriva Gary, un ragazzino (Tye Sheridan) dagli occhi tristi: una padre alcolista e violento, disoccupato e manesco con moglie e figlia. Gary vuole lavorare ad ogni costo per restituire dignità alla propria esistenza, a quella della madre e della sorella che ha smesso di parlare per il dolore subito. E Joe apre il cuore, impartisce al ragazzo insegnamenti che lui stesso non ha mai applicato e intravede quella luce in fondo al tunnel che promette un futuro. "Joe" è il classico film indipendente in stile Sundance e si gioca sul rapporto tra un padre e un figlio senza legami di sangue, tra due esistenze dimenticate da chi le ha messe al mondo, che un giorno si incontrano e si scelgono.
Occhi tristi di bambini, anche quelli dei piccoli protagonisti di "Wolfskinder" di Rick Ostermann (Orizzonti). Ragazzini sul finire della seconda guerra mondiale, dispersi tra i boschi della Germania che cercano di sopravvivere dopo aver visto morire i genitori. Soli, abbandonati a se stessi, nella forsennata ricerca di cibo, acqua, calore e affetto. Fratellini e sorelline persi per strada, affogati nei torrenti, inciampati nei rovi. Bambini lupo, vittime della guerra, che resistono con tutte le loro forze contro il nemico, diventando violenti e selvatici. Rigoroso, esteticamente limpido e immobile, raggela e commuove. Il regista tedesco Ostermann scrive a inizio film, che la sua opera è dedicata a tutti i bambini che hanno perso la propria infanzia, in ogni luogo del mondo, sia ieri che oggi.
Violenza tra le mura domestiche e sull’infanzia anche nel faticoso ed estenuante film di Philip Gröning "La moglie del poliziotto" (concorso). Affascinato da preti e poliziotti, come il Leone d’Oro alla Carriera William Friedkin ("L’Esorcista", "Vivere e morire a Los Angeles") e dopo la muta contemplazione di "Il grande silenzio" il regista tedesco esplora il declino e la degenerazione psicopatica di un giovane poliziotto, in un interno famigliare inizialmente biondo e patinato. È un film importante, su un tema serissimo e Gröning prende le distanze in modo rigoroso e implacabile. Una distanza a cui costringe anche lo spettatore, introducendo ogni cinque minuti un cartello nero che enuncia l’inizio e la fine di un nuovo capitolo. Sono queste continue interruzioni, che quasi come un imperativo dogmatico, rendono faticosa la partecipazione alla storia. Una distanza obbligata che rende difficile giudicare, costringendo prima di tutto ad analizzare. Senza comprendere.
(30 agosto 2013)
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