SPECIALE VENEZIA 70 – “Tom nella fattoria”, “Teorema Zero” e “Locke”

Barbara Sorrentini



Mentre il concorso prosegue con film di ottimo livello, ma senza picchi a parte il caso Stephen Frears, fuori concorso passa il film più applaudito e folgorante della mostra.

"Tom nella fattoria" è una dolcissima, seppur violenta, storia di bisogno di essere amati. L’autore e interprete protagonista è quel geniaccio di Xavier Dolan, canadese, poco più che ventenne e con alle spalle un curriculum consistente. Sempre presente al Festival di Cannes, in sezioni parallele ("Je tuè ma mère", "Les amours imaginaires") e ospitato con grande ammirazione al Festival Mix di Milano, arriva per la prima volta in concorso a Venezia. Il film si apre con la scrittura di una pagina dedicata, da Tom, al fidanzato appena scomparso, forse suicida. Con questo elemento importante Tom si reca nella fattoria della madre per partecipare al funerale. Per la madre Tom è un caro amico, mentre il fratello Francis sa tutto e ricatta Tom con assurde richieste, per mantenere il segreto. Tra paesaggi invasi dal grano, stalle con animali e fienili si muove questa storia di passioni trattenute, di scatti violenti e sfide sotto una luce molto calda. Con un ritmo sincopato agli stati d’animo. Commuove il modo in cui il dolore viene sublimato in lirismo e la rappresentazione di come amore e violenza riescano a convivere in una sola persona.

"The Zero Theorem" di Terry Gilliam (concorso) a quattro anni di distanza da "Parnassus" con l’ultima interpretazione di Heath Ledger, interrotto e ripreso per la scomparsa dell’attore. I toni qui rimandano a "Brazil", ma con meno vigore e sorpresa. Il protagonista Christoph Waltz vive in un futuro completamente tecnologizzato, è in attesa della chiamata finale, quindi moribondo, o meglio incapace di vivere. È rinchiuso in casa aspettando, connesso attraverso grandi computer con il mondo virtuale. Gli spunti visivi sono interessanti, visionari e scenografici; e Terry Gilliam non perde mai di vista il contenuto, o messaggio, concentrato sull’analisi per niente fantasiosa di una società che sta perdendo il contatto con la vita reale, i sentimenti e le relazioni umane. C’è qualcosa che resta inespresso, ma tra gli attori (Matt Damon, Tilda Swinton, Mélanie Thierry) e le trovate visive c’è da sbizzarrirsi.

Il colpo di fulmine è per "Locke" di Steven Knight. Un film originale e compiuto e se si va a leggere la filmografia del regista, si capisce perchè. Sceneggiatore per Stephen Frears con "Piccoli affari sporchi" e per David Cronenberg con "La promessa dell’assassino". E ho detto tutto. Inoltre, regista di "Redemption". Ivan Locke, interpretato incredibilmente da Tom Hardy è in autostrada, di notte e sta guidando verso Londra. Deve raggiungere una donna che sta partorendo, mentre a casa lo aspettano moglie e figli per guardare una partita in tv. In mezzo le continue telefonate del suo capo, che lo vuole immediatamente in pista per organizzare una colata di calcestruzzo per un edificio. In questo contesto che supera la realtà, Ivan Locke cerca di salvare la sua vita che gli si sta sgretolando addosso. Un uomo alla guida, che parla al telefono in viva voce, con differenti interlocutori con problemi differenti da risolvere, con implicazioni emotive fortissime. Tom Hardy passa dal sorriso, alle lacrime, alla preoccupazione, alla rabbia, alla nostalgia, al riscatto nel giro di pochissimi minuti. Portando con sé lo spettatore, in balia di momenti drammatici e in certi momenti quasi comici, tra il piangere e il ridere. Teatrale nel senso più altro del termine, "Locke" è stato girato per dieci volte, dall’inizio alla fine, montando le parti migliori. Gli attori che parlano al telefono con Tom Hardy si trovavano tutti nello stesso luogo, alternandosi all’apparecchio. Un esempio perfetto di come è possibile cercare e trovare verità attraverso la finzione.

(3 settembre 2013)



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