StopHateForProfit: cosa c’è dietro la fuga delle grandi marche da Facebook
Unilever, North Face, Levi’s, Coca-Cola sono alcuni dei grandi marchi che hanno deciso di abbandonare la pubblicità sui social network. Non è una campagna simbolica visto che pochi soggetti controllano oltre il 70% del budget pubblicitario mondiale e, probabilmente, riuscirà nel suo intento di cambiare le piattaforme. Ma non è detto che alla fine dobbiate festeggiare.
di Matteo Flora *
Alcuni dei maggiori marchi, da Coca-Cola a Unilever, da Levi’s ad Adidas, da Patagonia a The North-Face, hanno deciso di abbandonare Facebook e Twitter finché non verrà risolto il problema dell’odio. Questa è la descrizione dei fatti in breve. Ma la questione è più complessa e parte dal 2017. Per questo, va capita bene, strutturata. Partiamo da un dato di fatto, uno dei pochi in questa vicenda: il connubio tra pubblicità online e odio esiste. Online troverete il video di un mio TEDx[i] del 2017 dal titolo "Advertising Apocalypse: nella tana del Bianconiglio Digitale[ii]" che anticipava alcune questioni che oggi sono su tutti i giornali.
La campagna lanciata alcune settimane fa sulle reti social si chiama Stop Hate for Profit e mira a spingere con un’azione di lobbying le grandi piattaforme – in questo caso principalmente Facebook e Twitter – a contrastare la polarizzazione delle opinioni e dei discorsi di odio bloccando un budget importante destinato ai colossi del web, una cifra che si aggira intorno ai 70 miliardi di dollari. Obiettivo: niente pubblicità fino al raggiungimento dello stop all’odio sulle reti social. Unilever in particolare ha spiegato abbastanza bene la ratio che c’è dietro questa decisione: "Fare ancora pubblicità su queste piattaforme in un periodo simile non ci garantisce alcun valore. Tra contenuti polarizzati ed elezioni alle porte negli Stati Uniti occorre unirsi in un impegno sempre più importante contro i discorsi di odio".
Il dissenso corre forte, anche dentro Facebook: lo scorso 4 giugno i dipendenti del Social Network, , avevano chiesto le dimissioni di Joel Kaplan, ex lobbista che ricopre il ruolo di Vicepresidente delle Politiche pubbliche globali del colosso di Mark Zuckerberg e che in precedenza aveva lavorato otto anni nell’amministrazione George W. Bush.
In questo scenario c’è però da fare una considerazione. La domanda che arriva ai Social Network è "semplicemente" quella di fermare l’odio in rete? In realtà, è un po’ più complessa e merita un approfondimento su quello che stanno cercano di fare le piattaforme per arginare una certa modalità di comunicazione.
Di esempi se ne potrebbero fare tantissimi, mi limito a raccontare qui un commento in cui mi sono imbattuto recentemente su Twitter sotto un tweet di Maria Elena Boschi in merito al festeggiamento per il cinquantesimo Pride: "La depravazione mondiale dei succhia c***o e le piglia in c**o, lo schifo dei depravati dei pedofili, avete legittimato la depravazione mondiale". Ecco, un contenuto di questo tipo, una comunicazione che potremmo definire generalista, è la normalità in rete ed è questo il motivo principale per cui le piattaforme stanno per essere abbandonate dai colossi del mondo dell’impresa e dell’advertising.
La prima cosa da fare è, quando parliamo di pubblicità, dividere questo mondo in due emisferi molto diversi tra loro. Da una parte c’è tutto quel contenuto che nasce per prendere la fetta più grande di persone possibile, la cosiddetta pubblicità generalista. Qui vale la regola del "chi prendo, prendo". Di fatto, il messaggio in questo caso non è legato a un pubblico particolare. Nell’altro emisfero c’è invece un messaggio mirato, targettizzato, che punta, per esempio, alle mamme con bambini o al segmento degli iper-manager con un altissimo potere di spesa. Questo secondo emisfero è quello legato alla profilazione.
Quando parliamo dei grandi Brand che stanno abbandonando i social, stiamo parlando del primo emisfero: "Chi prendo, prendo". Andate a cercare in rete un esempio di comunicazione generalista che punta al più ampio bacino di utenza possibile e guardate i commenti, leggeteli con attenzione. Se l’azienda non è dotata di un gruppo di lavoro che si occupa della moderazione dei commenti, troverete centinaia di persone, come l’utente di cui sopra che ha commentato il tweet di Maria Elena Boschi, che – per i motivi più assurdi – attaccheranno quel Brand.
Perché? Perché sono anti 5G, antivaccinisti, sovranisti. Perché sono quelli ai quali non va mai bene niente. Sono quelli che se dici "Abbiamo aperto un asilo a Brembate" diranno "Ecco, perché non andate mai ad aiutare i poveri del mondo?" oppure "E i terremotati?". E se invece se apri un asilo a Calcutta, urleranno "Prima gli italiani". Se un’azienda telefonica annuncia di aver aumentato la banda, leggeranno "Abbiamo installato il 5G". Questa è la polarizzazione. Oggi non esiste argomento che non sia in qualche modo attaccabile o attaccato.
In questo scenario non c’è, quindi, nessun valore per le aziende nel pubblicare una pubblicità che sarà attaccata sotto ogni punto di vista e da ogni lato, da chiunque, da diverse piccole minoranze. Soprattutto, nessun utente prenderà mai posizione a favore di quel messaggio sapendo di correre il rischio di essere travolto da una valanga di insulti.
Risultato: fare pubblicità su simili piattaforme è, oggi, controproducente. Di fatto, la pubblicità generalista non ha spazio su Facebook o su Twitter. Ovviamente, si può fare altro: targettizzare il proprio messaggio, mirando a piccole nicchie che sappiamo per certo essere interessate al nostro contenuto. In fondo, è quello che faccio per lavoro ogni giorno: comunicare in contesti polarizzati, o meglio, trovare le specifiche polarizzazioni e comunicare con loro con il giusto linguaggio.
Il problema, però, è che il 90% degli investimenti pubblicitari si muove verso il pubblico generalista, il "chi prendo, prendo". Il resto, sono noccioline. Pensate alla cartellonistica, agli spazi pubblicitari sui giornali, alle sponsorizzazioni generiche su Facebook, su Twitter, su Instagram. Questo è il mondo della pubblicità, il resto è ancora residuale perché significherebbe investire sul fronte reputazionale o sul marketing strategico.
In risposta, Facebook ha dichiarato di non essere preoccupato dal "fuggi fuggi" delle ultime settimane, portando dalla sua parte i numeri, cioè gli ottomila inserzionisti influenti che popolano la galassia del Social Network, portando dollari su dollari al gigante di Menlo Park. Bugia! O meglio, gli inserzionisti sono davvero ottomila, ma tra questi ottomila ce ne sono circa ottocento che, da soli, investono il 90 per cento del totale. Il problema è che non lavorano direttamente con Facebook ma si muovono attraverso soggetti terzi che vengono normalmente chiamati “centri media”.
Il centro media altro non è che un’agenzia alla quale un marchio consegna un budget per fare pubblicità: è nei centri media che si decide quanto di quell’investimento è destinato alla televisione, quanto ai giornali, quanto alla produzione di spot e, infine,
quanto va su Facebook, su Twitter o nella sponsorizzazione dei video su YouTube. È chiaro, quindi, come la dinamica che c’è dietro un semplice post sponsorizzato su un social network sia complessa. Soprattutto, dobbiamo partire dal presupposto che mai (o quasi mai) è il marchio a scegliere dove, quanto e quando investire in pubblicità.
Vi chiederete: e allora cosa sta accadendo? E, soprattutto, perché così tanti Brand hanno annunciato lo stop all’advertising sulle reti social? Il motivo è da ricercare nello stigma sociale nei confronti di chi, invece, continua a pubblicizzare i propri prodotti su Facebook e su Twitter. Sì, è una moda. E passo dopo passo sempre più marchi la stanno seguendo perché se non lo fai significa che sei a favore dell’odio. Il messaggio è spaventosamente semplice.
Twitter ha bollato come fake news alcuni commenti di Donald Trump. Facebook non lo ha fatto: stigma sociale. Funziona. Ha già funzionato. Era, come vi dicevo, il 2017 quando scoppiò quello che nel settore della pubblicità è ancora oggi noto come Advertising Apocalypse. All’epoca al centro dell’attenzione mediatica c’erano i contenuti presenti sulla piattaforma, per esempio quelli violenti ai quali potevano accedere i bambini. Risultato: tutti i contenuti – tutti – sono stati demonetizzati. Di fatto, in quell’anno è cambiata la storia dell’Internet: eliminando la monetizzazione dei contenuti – dei video su YouTube, per fare un esempio concreto – si è raggiunto l’obiettivo di non rendere più conveniente produrre contenuti di un certo tipo. In fondo, chi detta le regole non sono i governi, sono i mercati. La chiave non è, quindi, se un messaggio funziona o non funziona, ma se quel messaggio rende o non rende. Se il risultato che ottengo è una valanga di insulti, meglio chiudere tutto.
Ora la questione è: sarà una svolta positiva o negativa? Nel 2017 quello che abbiamo ottenuto in seguito all’Advertising Apocalypse è stato costringere i creatori di contenuti online ad abbassare i toni, ad autoregolamentarsi. E questo ovviamente è un bene. L’altra faccia della medaglia, però, si chiama censura, ed è un concetto che fa paura. Come spesso accade, una serie di contenuti vennero rimossi dalla piattaforma. Ecco, da qui ai prossimi dodici mesi dobbiamo aspettarci che la stessa cosa accadrà con gli account social di diverse realtà o diversi attori politici: chiunque utilizzerà un certo tono che sarà bollato come violento sarà bloccato dalle piattaforme.
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Dal mio punto di vista, sono felice: non avrò più persone lontane dal mio credo politico a inquinare il "mio" Internet. Addio sovranisti. Addio complottisti. I Social saranno un mondo sicuramente più pulito. Il problema, però, è che sappiamo bene cosa è accaduto in altri periodi storici.
Ovviamente ricorderete il famoso sermone attribuito – anche se non c’è certezza storica a riguardo – a Martin Niemöller sull’inattività degli intellettuali tedeschi in seguito all’ascesa al potere dei nazisti.
"Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare".
Ecco, ricordiamoci che in corso non c’è nessuna battaglia sui diritti, né da parte dei grandi marchi, né da parte dei giganti del web. La battaglia è solo e soltanto economica. Il dibattito è legato semplicemente ai soldi. In tutta questa discussione non c’è traccia di valori, principi, ideali. E la soluzione che si sta prospettando è dare tutto il potere in mano a un algoritmo, all’intelligenza artificiale che distruggerà buona parte dei contenuti che danno fastidio. Sarà una risposta verticale e veloce. Ma quasi mai la più veloce delle risposte è quella corretta. Soprattutto, a dare la risposta giusta quando si parla di diritti non potrà mai essere una macchina.
* questo testo è tratto dal seguente video pubblicato sul canale Youtube di Matteo Flora: https://www.youtube.com/watch?v=f_j8G_N9FEk&t=5s
[i] Il TED è una serie di conferenze, chiamate anche TED talks, gestite dall’organizzazione privata non-profit statunitense Sapling Foundation. I TEDx sono conferenze organizzate in maniera indipendente ma su approvazione di TED.com
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