Sui miracoli. 300 anni di Hume, e non sentirli

Antonio Sgobba

, da il manifesto, 4 maggio 2011

La morte di Bin Laden è il primo miracolo di Giovanni Paolo II dopo la sua beatificazione.

Lo ha detto il presidente del Perù Alan Garcia. Lo aveva preceduto di qualche ora la deputata del Pdl Michaela Biancofiore:

L’eliminazione da parte delle forze Usa dello sceicco del terrore Bin Laden all’indomani della beatificazione di Giovanni Paolo II può essere letta come un nuovo enorme miracolo per il mondo regalato dal Papa più amato che tanto tuonò contro la rete del terrore in particolare ammonendola con le parole «il male è accompagnato sempre dal bene», volendo con ciò affermare che dietro il male spuntano sempre il bene e la giustizia universale, come dimostrato in queste ore.

La presenza dei miracoli tra le notizie di tutti i giorni non è certo sorprendente. In questi giorni bastava scorrere qualche titolo di agenzia per rendersene conto. Pescando a caso dagli ultimi tre giorni: «Wojtyla: Card. Saraiva: forse proprio domani da lui miracolo», «Suor Marie: la mia guarigione è stata un miracolo», «Wojtyla: Rachel miracolo profano, trans in piazza», «Napoli: si è ripetuto con un giorno di ritardo il miracolo di San Gennaro».

Ma è normale parlare di miracoli così come si parla di nubifragi o di ingorghi in autostrada? Sono eventi come tutti gli altri su cui tutti non possiamo che essere d’accordo? Per una risposta si potrebbe consultare un esperto del settore, autore di uno dei saggi più citati sull’argomento: David Hume, di cui in questi giorni si celebra il trecentesimo compleanno. Il filosofo scozzese è nato il 7 maggio 1711 a Edimburgo. Tra matrimoni, primimaggi e beatificazioni questa ricorrenza ce la stavamo per perdere.

Il suo Sui miracoli, sezione decima delle Ricerche sull’intelletto umano, presenta uno degli argomenti più noti in questo campo. Gli si potrebbe dare almeno una rapida lettura. Innanzitutto si dà una definizione precisa di miracolo:

Una violazione di una legge di natura per un particolare atto di volontà della Divinità, o per interposizione di qualche agente invisibile.

Per Hume una legge di natura è una cosa tipo «Tutti gli uomini sono mortali», richiede una regolarità uniforme di eventi e la scopriamo sulla base dell’esperienza. Dunque, se uno muore e poi resuscita, siamo di fronte a una violazione di una legge di natura e trattasi di miracolo. Se uno scoppia di salute e poi muore, trattasi di cose che capitano. Se un malato guarisce, anche. Se un uomo sugli sci si stacca da terra e si grida al miracolo, trattasi di mirabile vignetta di Makkox.

A questo punto Hume si chiede: come è possibile credere ai miracoli? Se lo facciamo dobbiamo servirci inevitabilmente della testimonianza di qualcuno, per farlo dobbiamo bilanciare la credibilità del testimone e la credibilità della violazione di una legge di natura. In altre parole:

Quando uno mi dice che ha visto un uomo morto restituito alla vita, io considero immediatamente in me stesso quale delle due cose sia più probabile, che questa persona inganni o sia ingannata, oppure che il fatto che essa riferisce sia realmente accaduto. Io peso l’un miracolo contro l’altro.

Ovvero: è più probabile che l’uccisione di Bin Laden sia un miracolo del beato Giovanni Paolo II o che Michaela Biancofiore stia dicendo una fesseria? Ciascuno giudichi. Da queste considerazioni Hume trae la sua «massima generale»

Non c’è testimonianza sufficiente a stabilire un miracolo, a meno che la testimonianza sia di tal genere che la sua falsità sarebbe più miracolosa del fatto stesso che essa si sforza di stabilire.

E fin qui Hume è stato pure «troppo liberale», come dice lui. Infatti ha dato per buona la possibilità che una qualche testimonianza possa rendere credibile un miracolo. Aggiunge quindi quattro considerazioni sulle circostanze e le condizioni in cui di solito si crede ai miracoli che dovrebbero spingerci ad essere estremamente cauti.

«In primo luogo», un miracolo non è mai stato affermato da «un numero sufficiente di uomini, di tale indiscutibile buonsenso, educazione e cultura» da garantirci la verità delle loro affermazioni. Secondo, l’uomo ha una «naturale passione per il sorprendente e il meraviglioso». I miracoli tendono a diffondersi proprio in ragione di questa tendenza, che si manifesta però anche negli «avvenimenti più comuni»

Per esempio: non c’è genere di notizie che sorga così facilmente e che si diffonde così rapidamente specialmente in località di campagna ed in città di provincia di quelle che si riferiscono ai matrimoni (…) il piacere di raccontare una notizia così interessante, di propagarle e di essere il primo a riferirla, diffonde la notizia stessa.

Potremmo solo aggiungere #RoyalWedding. Solo per dire che i miracoli si diffondono perché provano piacere nel raccontarli e farseli raccontare. Come mostra il sensazionalismo diffuso tra i media.

In terzo luogo, di miracoli si parla «principalmente tra popolazioni ignoranti e barbare», dove

L’avidum genus auricularum, la plebaglia stupida accoglie avidamente, senza esame, tutto quello che lusinga la percezione e eccita la meraviglia.

Quarto: ogni religione ha raccontato i suoi miracoli, il risultato è che queste testimonianze si elidono tra loro, «si distruggono da sé stesse».

A Edinburgo i festeggiamenti per il trecentenario di Hume sono incominciati il 26 aprile (per una storia di calendari Old style riformati). Forse festeggiare anche da noi sarebbe eccessivo, ma almeno una rilettura ogni tanto la si potrebbe fare.
L’ambizioso obiettivo dell’autore di On miracles era «ridurre al silenzio il bigottismo e la superstizione più arroganti e liberarci dalle loro impertinenti sollecitazioni», attraverso il suo argomento, che sarebbe stato

per i dotti e i saggi, un freno duraturo a tutti i generi di inganno derivanti dalla superstizione e, per conseguenza, sarà utile finchè durerà il mondo. Per altrettanto tempo, si troveranno in ogni storia, sacra e profana, le esposizioni di miracoli e prodigi.

(3 maggio 2011)

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