Suicidio assistito, la Consulta boccia la norma del codice Rocco
Maria Concetta Tringali
Sono state depositate il 22 novembre scorso le motivazioni alla sentenza della Consulta che sancisce l’illegittimità costituzionale di una parte dell’art. 580 del codice penale. Si tratta della norma che punisce l’aiuto al suicidio.
La decisione è frutto di un giudizio che era stato promosso dalla Corte di assise di Milano, nel procedimento penale a carico di Marco Cappato, esponente di punta dell’associazione Luca Coscioni.
La vicenda è quella di DJ Fabo, rimasto cieco e tetraplegico a seguito di un incidente stradale, la cui condizione irreversibile lo aveva determinato a scegliere di porre fine alla propria vita, attraverso il suicidio assistito praticato in Svizzera. Fabiano, nella clinica Dignitas di Forck, aveva attivato con la bocca un pulsante, dallo stantuffo era fuoriuscito un farmaco che da lì a pochissimo gli aveva procurato la morte. Siamo nel febbraio del 2017. Nella struttura elvetica ad accompagnare il giovane era stato l’esponente dei Radicali che, al rientro, aveva raggiunto la prima caserma dei carabinieri oltre confine e si era autodenunciato.
Il dibattito sul fine vita si trasferiva da quel momento sul piano giudiziario e, dal tavolo dei , si avviava verso l’ultimo atto.
È della Consulta la parola che sembra essere quella definitiva. Il giudice delle leggi travolge la norma, testualmente «nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione – agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente».
In sintesi, non si può punire chi presta aiuto se il proposito suicidiario si è autonomamente e liberamente formato. La Corte definisce in un passaggio successivo le cautele necessarie e le relative procedure, affinché risultino obiettivamente riscontrabili e verificabili la consapevolezza e la volontà del malato che, in condizioni irreversibili di patologia caratterizzate da atroci sofferenze, decida di mettere fine alla propria vita.
La reazione del protagonista politico di quello che sembra essere un punto di svolta è, ancora, una spinta in avanti: «Ora c’è un dovere, da parte del ministro della Salute – dice Cappato a commento del deposito delle motivazioni – di adottare tutte quelle tecniche immediate affinché questo diritto sia da oggi esigibile. È la conclusione più importante che traiamo dalla sentenza della Corte Costituzionale». Si dicono pronti molti medici, tra questi l’esponente del partito che fu di Pannella, Silvio Viale.
Il provvedimento dà conto della storia umana di Fabiano ma altresì ripercorre gli anni recenti nei quali il Paese si è spaccato sui temi del fine vita, senza peraltro riuscire a produrre una legge in grado di regolarne i contorni.
La Consulta indaga intanto sul perimetro del diritto all’autodeterminazione individuale, previsto dalla Costituzione all’articolo 32, proprio con riguardo ai trattamenti terapeutici.
E lo fa richiamando il caso di Piergiorgio Welby e quello di Eluana Englaro, per poi condurre la questione all’epilogo atteso.
Non potrà tralasciarsi che, in occasione dell’udienza di rinvio, la Corte invitava con forza il Parlamento a legiferare, pur senza ritenere l’incriminazione dell’aiuto al suicidio incompatibile con la Costituzione.
L’ultimo atto ci consegna dunque, con argomentazione cristallina, un principio di grande civiltà: «il bene giuridico protetto dalla norma denunciata andrebbe oggi identificato, non già nel diritto alla vita, ma nella libertà e consapevolezza della decisione del soggetto passivo di porvi fine, evitando influssi che alterino la sua scelta».
A fare la differenza è insomma che la condotta di chi abbia aiutato un soggetto a compiere il suicidio assistito, per dirla con le parole dei giudici, «non abbia inciso sul percorso deliberativo della vittima».
Nel caso di DJ Fabo, Marco Cappato altro non è stato se non «lo strumento per la realizzazione di quanto deciso da un soggetto che esercita una libertà costituzionale».
Laddove non c’è istigazione né rafforzamento del proposito suicidiario, la norma che sancisce la sanzione penale e dunque l’illegittimità della condotta è pertanto da oggi contraria alla Costituzione.
Ma la Consulta fa un passo ulteriore e ripercorre le ombre di un impianto che fa risalire il nostro codice penale al periodo fascista.
Al centro cosa c’è? La questione, a guardarla con attenzione, ruota attorno a quello che più sopra abbiamo definito come bene giuridico tutelato. E se nella vigenza della disposizione, così censurata, a essere riconosciuta meritevole di protezione era la vita «intesa come bene non liberamente disponibile da parte del suo titolare», ciò accadeva perché si era in un’epoca in cui «la tutela dell’individuo era secondaria rispetto a quella della collettività statale».
Il momento in cui l’ottica cambia del tutto coincide con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana che imprime invece alla tutela della vita una prospettiva personalistica. È qui che rileva per la prima volta ciò che la Corte definisce come «interesse del suo titolare volto a consentire il pieno sviluppo della persona, secondo il disposto dell’art. 3, secondo comma, Cost.».
Lo scarto non è da sottovalutare, ne è di poco conto. La decisione àncora l’illegittimità di una disposizione alla libertà di autodeterminazione individuale, finalmente centrale anche nelle fasi finali della vita.
Siamo nella sfera del dolore supremo eppure anche nel momento della decisione più lucida: «In tali casi, l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’uni
co modo per sottrarsi, secondo le proprie scelte individuali, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare». Stiamo ragionando, finalmente, del diritto – in certi casi – di scegliere financo di morire.
Ciò che non sfuggirà agli operatori e alle operatrici del diritto è poi il richiamo che la Consulta fa al quadro giuridico vigente, rinforzando l’argomentare e affondandone i pilastri sul terreno del diritto positivo.
Esiste già nel nostro ordinamento, introdotta da una legge del 22 dicembre 2017, la possibilità di esprimere per il malato «la decisione di accogliere la morte» e di farlo con effetti vincolanti nei confronti dei terzi. Il riferimento è alla interruzione dei trattamenti di sostegno vitale e alla contestuale scelta della sedazione profonda continua.
Con quella norma sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento si riconosce per la prima volta il divieto di ostinazione irragionevole nelle cure, perché lesivo della dignità umana nella fase finale della vita. Già la Corte europea dei diritti dell’uomo, citata nel provvedimento del giudice delle leggi, si era espressa in favore del diritto di ciascun individuo di decidere «con quali mezzi e a che punto la propria vita finirà».
La citata legge n. 219 riconosce, così, rispetto a qualsiasi trattamento sanitario, ad «ogni persona capace di agire» il diritto di rifiutarlo o interromperlo, quel trattamento, ancorché necessario alla sopravvivenza. Il medico «è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente» e rimane «in conseguenza di ciò, […] esente da responsabilità civile o penale».
Ecco che la declaratoria di incostituzionalità attiene unicamente all’ipotesi in cui l’aiuto al suicidio sia fornito a quegli stessi soggetti che già sarebbero in condizione di lasciarsi morire, rinunciando ai trattamenti sanitari indispensabili alla sopravvivenza.
La Corte delinea infine il tratto dell’obiezione di coscienza e precisa al personale sanitario che la pronuncia non vale a creare alcun obbligo: «resta affidato alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato». Il presidente della Federazione nazionale degli Ordini (FNOMCeO) sul punto si dice pronto a valutare integrazioni del codice deontologico.
Ma se centrale per il corretto discrimine è la questione dell’autodeterminazione, va dato atto alla Consulta di avere distinto ciò che vale per il futuro – ossia le procedure che fanno capo ai servizi sanitari pubblici nonché alle competenze dei comitati etici – e quello che invece vale per il passato. Per il periodo precedente alla pubblicazione della sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, infatti, «la non punibilità dell’aiuto al suicidio richiede che l’aiuto sia stato prestato con modalità anche diverse da quelle indicate, ma idonee comunque a offrire garanzie sostanzialmente equivalenti».
Una nota di metodo che è anche una questione di merito – e in particolare di merito politico – possiamo trarla in ultimo dal comunicato con cui i giudici di Piazza del Quirinale annunciano il deposito delle motivazioni. La Consulta supera l’inerzia del Parlamento o la sua incapacità di ricondurre a sintesi il dibattito nel Paese, su un tema delicatissimo come il fine vita. Pertanto, se la norma non arriva, la Corte Costituzionale non si esime dai compiti che le sono propri: «L’esigenza di garantire la legalità costituzionale deve prevalere su quella di lasciare spazio alla discrezionalità del legislatore», specie – potremmo aggiungere – se incapace.
Il dato è che sia oggi il giudice delle leggi a doversi preoccupare di evitare vuoti di disciplina, «ricavando dal sistema vigente i criteri di riempimento, in attesa dell’intervento del Parlamento».
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