Sul distanziamento didattico e la riapertura delle scuole
Carlo Scognamiglio
Poniamo nell’ordine tre elementi problematici, discutiamoli e poi tracciamone il nesso.
Primo: il processo di apprendimento, nelle varie fasce d’età, non segue il medesimo tracciato, se svolto in presenza oppure a distanza. Secondariamente, le dinamiche affettive e motivazionali coinvolte in un processo di apprendimento, durante un’emergenza sanitaria ed economica, evidenziano un ulteriore elemento di eccezionalità. Consideriamo infine la proposta messa sul tappeto dagli “esperti” ministeriali, di far lavorare nel medesimo tempo una parte degli alunni in presenza, e un’altra a distanza. Proposta inizialmente rivolta all’intera comunità studentesca, e poi – per valutazioni legate per lo più alla custodia domestica (e giammai alla qualità didattica) – riservata soltanto agli studenti della secondaria superiore. La domanda sotterranea che tiene insieme le tre questioni è infine: quanto a lungo – e in che modalità – dovrà ancora protrarsi la didattica a distanza?
La risposta non può essere lineare e immediata, ed è necessario cercare di scandagliare i fondali dell’insegnamento a distanza, per avviare un’analisi fondata intorno all’interazione con la prassi già consolidata della didattica in presenza. Ammettiamo che, seppur in minima parte, una simile convivenza sia già esistita in passato e sia praticata tuttora in alcune aree del pianeta, ciò non rende meno necessario un ragionamento approfondito, su quello che si annuncia come uno dei processi trasformativi più profondi del nostro sistema educativo. Non ci deve spaventare, ma necessita di un’analisi critica seria, perché la consapevolezza è indispensabile al controllo. Mi è capitato di leggere in questi mesi rievocazioni di esperienze di didattica a distanza imperniate sull’esaltazione del maestro Manzi; mi ha anche colpito la riesumazione da parte di Maurizio Tiriticco delle scuole Radio Elettra di Torino, associata a una lettura dell’odierna esperienza di DAD, come un’interessante opportunità da raccogliere e far fruttare. Qualcuno si è spinto anche più indietro nel tempo, rievocando il diciottesimo secolo, quando negli Stati Uniti fu introdotta l’istruzione per corrispondenza. Perché mai evocare i demoni di esperienze passate evidentemente incommensurabili con le circostanze attuali? Si tratta di uno stile di scrittura, spesso adottato anche come artificio retorico, che si fonda su un dispositivo molto semplice, ma sempre efficace: “ma quale novità? C’è sempre stato!”. Ed è un artificio utile per chi lo adopera, perché lo dispensa dal dover pazientemente fare i conti con una ristrutturazione del campo, e gli consente in breve tempo di confezionare una tesi irrobustita da ciò che già conosce, e che probabilmente già conoscono i potenziali lettori. Di tono diverso, ma stile in tutto analogo, l’articolo pubblicato pochi giorni fa da Alberto Asor Rosa su Repubblica, per celebrare l’importanza della classe in quanto tale, come luogo elettivo di una formazione umana completa. Va bene, è abbastanza chiaro: la lezione in presenza è di gran lunga preferibile rispetto a quella distanza. Tuttavia dagli intellettuali di questo Paese ci si aspetterebbe forse qualcosa in più, che un’autorevole ovvietà.
In tutti i casi sopracitati, mi pare di poter registrare un grande assente: la pandemia. Un piccolo dettaglio, che non consente affatto di utilizzare schemi precedentemente acquisiti, nella circostanza viva dell’oggi. È il momento di mettersi a studiare, per pensare soluzioni misurate sul presente, ed evitare la fretta di dire la propria, di gettare sul tappeto l’ennesima opinione priva di documentazione adeguata.
Adeguata, non sbrigativa. Alcuni dirigenti scolastici, nelle scorse settimane, mossi forse dal rimorso per una certa inettitudine nell’organizzazione di adeguate politiche di formazione e aggiornamento professionale, hanno suggerito agli insegnanti di sfogliare qualche pubblicazione dedicata all’e-learning. Evidentemente c’è molta confusione. Un tipo di formazione a distanza come quella sperimentata in questi giorni in Italia (e in tutto il mondo), che è rivolta a minori (bambini o adolescenti), e non ha precedenti nel nostro Paese. Nessun riferimento bibliografico appare realmente utile. Certamente la pratica consolidata dell’insegnamento agli allievi ospedalizzati è un patrimonio importante; ma si tratta di approcci segnati da una diversa eccezionalità.
Il riferimento all’e-learning è evidentemente inappropriato. Si tratta di una metodologia che nasce e si rafforza nell’ambito della formazione aziendale, costituendo un vero e proprio mercato internazionale, divenuto economicamente significativo a partire dal 2007. A rigore, l’e-learning non implica necessariamente la distanza, può essere usato anche in presenza, e la sua peculiarità deriva dal valore aggiunto che si attribuisce agli strumenti. Negli anni Novanta ci si appoggiava a supporti digitali da inserire nel pc (floppy disk, cd-rom, et similia), oltre che a dispense cartacee. Con la diffusione e soprattutto la rapidità della Rete, il sistema si è evoluto, ed è stato ribattezzato “online learning”, e può ben affermarsi – e di fatto ciò si sta definendo progressivamente un po’ ovunque – in una didattica mista (blended learning). In sintesi, quando parliamo di e-learning ci riferiamo a un complesso di dinamiche di apprendimento più o meno strutturate o supportate, che un soggetto ha la possibilità di attivare attraverso differenti applicazioni digitali, per lo più online, che viene sistematicamente proposto da molti anni a studenti universitari, insegnanti, e prolifica soprattutto nell’ambito della formazione aziendale. Raramente è proposto a bambini o adolescenti. Perché? La risposta più intuitiva ce la offre il sito di Applied Educational Systems, secondo il quale l’apprendimento esclusivamente fondato su dispositivi digitali presenta due criticità: l’esposizione eccessiva allo schermo, e il fenomeno del cheating (cioè una maggiore propensione a “barare” da parte degli studenti), che costringe gli insegnanti a ideare procedure sempre più macchinose per arginare tale tentazione. Al tempo stesso, resta aperta la voragine del digital divide, già approfondita .
Scorrendo le pagine dei siti internazionali specializzati, il dibattito più acceso di questi tempi, anche per la sua oggettiva complessità, concerne il tema della “sostenibilità” dell’e-learning, cioè a dire il suo valore aggiunto rispetto a un processo didattico tradizionale. Si discute mo
lto intorno al “se” e al “quando” questa metodologia diventa realmente utile, in particolar modo pensando all’istruzione in età scolare. Ci sono dimensioni dell’online learning che lo rendono assai interessante da un punto di vista didattico, come l’interattività e la multimedialità: fattori che riescono ad agire direttamente sui processi di alimentazione della motivazione all’apprendimento. Il problema però, specialmente in età evolutiva, è che tali metodologie non pongono in adeguata considerazione la dimensione multi-dimensionale dell’apprendimento, a cominciare dalla componente affettiva ed emozionale, che può essere curata e gestita quasi esclusivamente attraverso un coinvolgimento pieno della comunicazione verbale e non verbale, e che si perfeziona attraverso l’esperienza polisensoriale. Il rischio di equivoci rispetto a toni, intenzioni e feedback, nella distanza, è estremamente elevato. Non occorre uno specialista della comunicazione per dimostrarlo, è un dato sufficientemente intuitivo.
A differenza di quanto sta realmente accadendo con la nostra didattica a distanza, nell’e-learning , come metodologia, è poco riconoscibile la figura dell’insegnante, ricondotta al ruolo di instructor. In realtà il docente assume una rafforzata funzione progettuale, ma il suo parziale occultamento è legato a un sistema di figure e servizi che costituiscono la spina dorsale di quel metodo: il tutor e la comunità di pratica. La marginalizzazione degli aspetti relazionali ed emotivi, insieme alla messa in ombra della soggettività docente, rende evidentemente inadeguato l’approccio dell’auto-apprendimento digitale per gli studenti della primaria, ma anche della secondaria. In termini estremamente chiari, Gianni Marconato lo ha spiegato bene e a più riprese: imparare a distanza richiede un livello di autonomia e determinazione, nonché di organizzazione del proprio tempo, che solo difficilmente possono essere riconoscibili in età evolutiva.
Detto questo, il modello di lavoro adottato dalla scuola italiana in questi mesi, non ha molto a che fare con l’e-learning, né con l’online learning. Nel lessico specialistico, si parla invece di distance learning, perché più marcatamente riferito alla permanenza domiciliare,dovuta a varie ragioni, e in occasione della quale “la tecnologia non rappresenta un valore aggiunto per l’apprendimento, ma un mero facilitatore per la comunicazione”, come precisa Anthea De Domenico.
Secondo Moore e Kensley, la metodologia del distance learning si può ricondurre a “un processo di insegnamento e apprendimento programmati, in cui di norma l’insegnamento avviene in un luogo diverso dall’apprendimento, e le cui comunicazioni sono mediate da tecnologia, entro una speciale organizzazione”[1], o più semplicemente, secondo Finch e Jacobs, sono riconducibili al distance learning tutte le forme di insegnamento e apprendimento in cui gli studenti, e chi li istruisce, sono geograficamente e temporalmente separati”[2]. È opinione unanime tra gli studiosi che il distance learning favorisca l’accesso all’apprendimento a chi per diverse ragioni rischia di esserne escluso, specialmente in alcune aree del mondo. Parrebbe quindi uno strumento al servizio dell’equità. E in un certo senso è stato così anche da noi: onde evitare una prolungata privazione di un segmento importante del proprio percorso formativo, specialmente pensando agli studenti più fragili (anche da un punto di vista economico-sociale), gli insegnanti si sono nella didattica a distanza. Tuttavia, come tutti gli strumenti, anche questo si presta a raggiungere obiettivi tra loro opposti. v Secondo gli stessi sostenitori[3] del distance learning, infatti, la didattica a distanza si presenta come il canale privilegiato per fornire le basiche competenze necessarie alla futura forza lavoro, ma in un mercato del lavoro già dato, e che come ben sappiamo, non disdegna le più amare pratiche di sfruttamento. Inoltre, il distance learning è considerato perfettamente funzionale a una razionalizzazione dei costi per le risorse educative, oltre che a ridurre tempi e costi degli spostamenti. Non a caso, in Brasile tale opzione didattica, inizialmente utilizzata per raggiungere bambini residenti in villaggi dell’Amazzonia penalizzati dai difficili spostamenti (quindi con una finalità inclusiva), è stata poi adottata su più ampia scala per ridurre di fatto i costi dell’istruzione, soprattutto quella rivolta alle fasce sociali inferiori, le quali non hanno possibilità di integrare i propri percorsi formativi. Ma è considerato una buona soluzione, perché costa poco e garantisce una minima alfabetizzazione e un ammaestramento digitale, anche negli Stati Uniti, dove già dal 2014 si sono moltiplicate le virtual schools, pensate come scuole completamente gestite a distanza, diffuse soprattutto nelle zone rurali[4].
Se l ’e-learning ricorre a tecniche miste d’insegnamento e apprendimento, e si appoggia su specifici e diversificati strumenti, il distance learning è pensato originariamente per garantire la continuità; nei paesi del Nord-Europa vi si ricorre quando nevica; noi l’abbiamo incontrata per la prima volta in occasione dell’epidemia, ma può essere molto flessibile, anche in relazione all’organizzazione dei tempi di vita degli studenti.
Veniamo al dunque. Secondo gli esperti dell’Applied Educational Systems, “il distance learning di solito funziona meglio con gli studenti universitari che hanno solide possibilità di accesso all’uso delle tecnologie nelle proprie case e lavorano autonomamente e responsabilmente”. Poco e male si addice a bambini e adolescenti, specialmente quando e se, con interventi mirati, diventa possibile garantirne la frequenza scolastica in presenza, e in sicurezza.
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Appare allora per molte ragioni incongrua la prospettiva di svolgere nello stesso tempo un’attività didattica in presenza per una porzione del gruppo classe, e a distanza per l’altra. Non potendo prevedere fin da ora il livello di rischio sanitario relativo al prossimo autunno, possiamo tuttavia ragionare su come predisporre, nei prossimi mesi, una riorganizzazione anche edilizia capace di favorire un ripristino in sicurezza della frequenza scolastica. Occorre infatti ricordare che in età evolutiva la formazione a distanza determina un impoverimento del processo di apprendimento.
Che poi nelle aule sia possibile e anche auspicabile ibridare la didattica tradizionale con innesti metodologici intelligentemente raccolti dall’esperienza dell’online learning è senz’altro importante. Ma sono processi lunghi. Se apprendere a distanza ha una sua specificità, lo stesso dicasi per l’insegnare a distanza. Non illudiamoci: ci vogliono competenze ulteriori rispetto al semplice avvio di una videoconferenza. Non si può improvvisare, se non in piena emergenza.
Per il prossimo settembre, forse, sarebbe più intelligente decidersi finalmente a dirottare risorse più apprezzabili sul sistema dell’istruzione, stabilizzare altri sessanta o settantamila insegnanti, ridurre gli alunni per classe e utilizzare l’ingente quantità di immobili dello Stato non utilizzati (molti dei quali in ottime condizioni), per dare un nuovo respiro alla scuola pubblica.
[2] Finch D. – Jacobs K. (2012). Online education: Best practices to promote learning. Proceedings of the Human Factors and Ergonomics 56th Annual Meeting.
[3] Moore : – Kearsley G., cit.
[4] Beltrametti M. – Lattanzi R. – Coppi M. – Genovese P. V. – Gilbert P., E-learning: la rivoluzione in corso e l’impatto sul sistema della formazione in Italia. Pubblicazione “Interesse nazionale”, 2014, Aspen Institute Italia.
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