L’industria culturale italiana, come si sa, non è florida. Anche per via del fastidioso impaccio della lingua. A praticare l’italiano, si è in numero ancora non trascurabile. Malgrado una crisi demografica che si annuncia come irreversibile, tra le lingue del mondo, l’italiano sta ancora intorno alla ventesima posizione come numero di parlanti, concentrati peraltro in un’area che ancora è tra le più floride del pianeta. Non si può quindi smettere di botto e fin da adesso di pubblicare libri in italiano, per esempio, o di far film in italiano. Ragionevolmente, un giorno accadrà. Sta già accadendo peraltro – e non da ieri – nella letteratura scientifica, come se, per la comunità nazionale, fosse cosa banale e non ben più di un segno che, per l’italiano, avanza a grandi passi il giorno del giudizio. Per l’insieme della produzione culturale della nazione italiana, però, a quel giorno manca ancora un po’ (non troppo: meglio non nutrire illusioni, in proposito).
Il numero di chi pratica l’italiano non è in ogni caso bastevole per attirare gli appetiti globali, nelle sue due principali varianti, tra loro non esclusive: quella di chi vuole fare quattrini e quella di chi vuole comandare. In tali ambiti, si vuol ottenere tanto spendendo poco, anzi, sempre meno. E italiano e varietà linguistica sono come un giorno (e fuori di ogni correttezza politica) si diceva fossero belle donne e motori. Costano, se non danaro, fatica, e son gioie e dolori.
All’industria culturale italiana non si può di conseguenza rimproverare se prova a fare ciò che può e sa, se s’arrabatta per sopravvivere alla meno peggio con la lingua ormai peregrina che si trova e con il suo bacino di utenza, peraltro piuttosto renitente al consumo culturale. È un antico retaggio nazionale e, come tutte le tendenze ancestrali, non è detto sia (stato) un difetto. Lavora ovviamente sul trash, l’industria culturale italiana, come quella di tutto il mondo. Ma se le tocca alzare lo sguardo anche solo di un gradino sopra il trash, come è forse indispensabile si faccia con l’area definita saggistica o quando si vuole che la settimana che un film passa ritualmente sugli schermi sia annunciata almeno da una recensione, chi incontra, come suo bersaglio commerciale ideale?
Come gruppo di una qualche consistenza demografica e con una capacità di spesa modesta ma ancora compatibile con i consumi pertinenti, incontra da una parte i docenti, un ceto che ha la sua punta di diamante culturale nelle professoresse e nei professori di discipline umanistiche: italiano, storia, filosofia, lingue classiche. È un ceto risentito, certo ancora di custodire i valori culturali e morali fondamentali della nazione e di custodirli nel modo migliore oggi possibile, bramoso perciò di un riconoscimento (non solo economico) che però non riceve (se non a chiacchiere) ed è di conseguenza piuttosto rancoroso nei confronti del resto della società, da cui si sente se non spregiato, certo non sufficientemente apprezzato.
L’industria culturale incontra, d’altra parte, coloro che sono allo stato sotto l’influenza morale del ceto docente, studentesse e studenti, o che lo sono stati e che, qualsiasi strada abbiano poi percorso nella vita, sotto quella influenza morale sono moralmente rimasti (che lo siano anche praticamente, non è rilevante: di norma, non accade). Incontra, insomma, coloro che, nell’animo, per contingenza o scelta di vita, sono discenti. Docenti, da un lato, discenti, dall’altro, il target dell’industria culturale italiana appena un po’ fuori del trash è insomma una popolazione scolastica, in gran parte solo idealmente scolastica, ma pur sempre scolastica.
Tutti costoro hanno vissuto e vivono concretamente il degrado di un’istituzione che pare (anzi, è certamente) inadatta ed estranea al mondo come è uscito dalla fine della modernità ma tutti ritengono (forse con ragione) che quella scuola, che li delizia o li tormenta come una visione onirica, sia o sia stato il loro più importante incontro con la cultura. In tanti, raggiunta o superata la maturità degli anni (come ormai una porzione preponderante di coloro che parlano italiano), vivono inoltre il ricordo di quell’incontro come giustamente si vivono i ricordi della giovinezza. Anche questo, del resto, aveva fatto della scuola uno dei luoghi emblematici della modernità: l’essere lo spazio fisico e morale dell’adolescenza e della giovinezza.
I ricordi e le fantasie della giovinezza hanno sempre un gusto dolce o dolciastro. Hanno il sapore delle occasioni perente, delle promesse rimaste tali. Sono stati psichici colmi di affetto che, come una nebbia, rendono tutto morbido e indefinito, persino e positivamente i sensi di colpa per ciò che (si pensa, spesso sbagliando) potrebbe o avrebbe potuto essere e (ovviamente) non è o non è stato.
Ebbene, verso un pubblico così atteggiato, l’industria culturale italiana orienta da un po’ un certo numero di suoi prodotti. Non lo fa da molto, come si diceva. Ancora qualche decennio fa, infatti, già il solo sentore di aula scolastica avrebbe fatto fuggire i clienti a gambe levate e decretato l’insuccesso di un libro o di un film. Oggi, succede il contrario: più sa di scuola, più ricorda la scuola, maggiore è il (pur modesto) successo.
Come biasimare allora l’industria culturale italiana? Fa affari, come deve e come può. Certo, sono piccoli affari. Tali li consente il suo piccolo mercato. Ma resta, l’italiana, una nazione positivamente cattolica, in cui degli affari si parla con piacere ma solo se presentati come opere pie. L’impronta scolastica, appunto, li redime. Stanno sotto il sacro segno di ciò che s’insegnava o s’insegna a scuola. Sono circondati dall’aura dell’operazione di bene disinteressata, volta all’elevazione morale e non al commercio. Si tratta dell’aura che qualifica, in essenza, la lezione differenziandola, per esempio, dal discorso dell’imbonitore o dall’arringa politica.
Come la predica in chiesa, la lezione è fatta per il bene ma è un tipo di interazione sociale che (lo sanno bene professoresse e professori in servizio) non è più possibile (e non da ieri) praticare a scuola, cioè nel luogo a suo tempo deputato. Anche per tale ragione, vestita sovente di finte pompe magistrali, la lezione è ormai venuta fuori dalla scuola e viene riprodotta in altri ambiti sociali. Festival culturali e presentazioni di opere della fantasia e dell’ingegno si moltiplicano: sono, di norma, lezioni i cui temi, soprattutto se delicati, difficilmente sopravvivono nella coscienza di chi assiste all’evento senza quei danni che è pietosa convenzione italiana definire eufemisticamente divulgazione. Al fenomeno, corrono dietro gazzette e portali culturali. I prodotti edificanti venduti sulla pubblica piazza vi trovano benedizioni di penne reputate, pronte peraltro a lanciarsi a loro volta in operazioni del medesimo tenore, a virtuosa chiusura del modesto circolo economico.
A cosa servono allora lingue classiche, lezioni grammaticali e poeti? C’è chi ha dato fondo in tempi recenti a tutta la sua fantasia o ha ripetuto i soliti luoghi comuni per rispondere a una domanda siffatta, divenuta ovviamente di colpo popolare. La risposta è invece di disarmante semplicità e la si è appena data. Modestamente ma in modo benemerito, con la pubblicazione di libri e con la produzione di film, lingue classiche, lezioni grammaticali e poeti servono a sostenere un’industria culturale nazionale che fa ciò che può per sopravvivere, in tempi sempre più calamitosi, e si aggrappa a tutto, annusata l’aria che tira, pur di spremere qualche soldo e di ottenere un po’ di attenzione dal solo pubblico che riesce a pensare come il suo d’elezione, composto da chi ha lo spirito (perlomeno lo spirito) del docente o del discente. A tale spirito, la cultura si presenta del resto sempre come sacra apparizione, come una Madonna, nella sua canonica, se pur rinnovata, forma scolastica. E questo è il quadro, in conclusione, per le cose che contano.
Poi vengono le chiacchiere. Ma se divertono (come qui divertono) e soprattutto se si vuole fare gli antipatici (o gli storditi e gli idioti, cioè gli antipatici cretini, gli scemi del villaggio), le si possono pure aggiungere. Tanto, come adesso si dice, stanno a zero. Si può dire allora che, dato il clima, c’era da attendersi che lingue classiche e poeti, fatti a brandelli, finissero per alimentare le fiamme che tengono a bollore la caldaia di una stupidità universale. Così è indispensabile alla presente temperie. Bisogna infatti procurare quotidianamente al mondo la rinnovata sorpresa per la continua scoperta dell’acqua calda. E niente, neanche il duale, neanche l’apofonia possono salvarsi da un trattamento del genere. Prima o poi, c’era da scommetterci, qualcuno avrebbe trovato infatti il modo di farseli venire utili, come sopra si è detto. È successo, tra candide esclamazioni di stupefatta meraviglia, com’è successo per la bellezza del latino e per le favole sul poeta di Recanati.
La modernità putrefatta è anche in questo spudoratamente contraddittoria. Per ciò che gioca un ruolo nell’incessante partita tra utile e inutile e dunque per la sua vita materiale, essa vive infatti tra sprechi esagerati. Rende inutili e getta via tante cose che, all’umanità (e alla sua umanità, in particolare), verrebbero molto utili. Non accade lo stesso quanto alla vita morale e conseguentemente alla cultura. Come si diceva del maiale nella vecchia civiltà contadina, così la modernità putrefatta si comporta con la cultura. La scanna e, fattole il servizio, la fa a pezzi e non getta via nulla. Tutto, in un modo o nell’altro (e forse anche solo per disperazione, come si è visto), vi viene reso utile. Persino le proteste e le rivendicazioni del valore dell’inutilità: pelose. Nel caso specifico, anzi, setolose. Portano infatti scritto un prezzo sulla copertina o sul biglietto d’ingresso: che bisogno c’è, allora, di spendere tante inutili parole per dimostrare che l’inutile (a qualcuno almeno) torna utile?
Nobili proteste e rivendicazioni sonore saranno prese sul serio, viene fatto di commentare (ma ovviamente solo per celia), quando chi le farà le distribuirà gratuitamente. E senza trarne alcun utile, tornerà a sera verso la botte in cui si racconta vivesse appunto Diogene di Sinope, lui sì maestro, come si sa, nell’arte di distinguere criticamente nella complessa e scivolosa materia.
(9 luglio 2019)
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