Sulle colpe di Pio XII e Craxi un intollerabile revisionismo
di Ettore Masina
Sarà a causa della bizzosità tipica di certi vecchi o di un moralismo d’altri tempi ma a me sembra francamente intollerabile la prosopopea con la quale alcune persone “di potere” cercano di convincerci che nel giudicare i loro maestri si può – anzi: si deve – procedere a spicchi, a settori, a punti di vista, non negando del tutto, ciò che sarebbe impossibile, certe colpe o patologie ma rimandandone la valutazione ad altra (non definita) sede; adulterando così la memoria storica e nascondendo i limiti che ne hanno profondamente caratterizzato le azioni.
So bene che i giudizi storici sono sempre controversi e che il tempo opera, per così dire, la remissione di molti peccati, ma certo non li cancella. Confesso, per esempio, che ad ogni 1 gennaio, ascoltando in televisione il tradizionale concerto della Filarmonica di Vienna, batto anch’io gioiosamente mani e piedi durante l’esecuzione della Marcia di Radetzky. Non dimentico tuttavia che se per gli austriaci il Feldmaresciallo fu un fedele difensore dell’Impero, noi italiani lo consideriamo, a ragione, un feroce macellaio di patrioti; e il mio tributo d’ammirazione non va, ovviamente, a costui ma al creatore di quella allegra musica, Johann Baptist Strauss. A 152 anni dalla morte del generalissimo, il suo nome è poco più che un nome, almeno in quest’occasione.
Quella con cui mi scontro (ci scontriamo: perché siamo certamente in molti) è invece la pretesa di alcuni altissimi ecclesiastici e di alcuni potenti uomini e donne della politica italiana di recuperare e celebrare la memoria di personaggi (Pio XII e Craxi, per fare i due esempi – come dire? – più vistosi) che hanno influito sulla vita sociale di un recente o non lontano passato. Di Pio XII si pretenderebbe che accettassimo una definizione di santità “privata”, accantonando le critiche su certe gravi caratteristiche del suo pontificato: operazione già compiuta per il papa della ghigliottina e del Sillabo, Pio IX, o per quello della ferocissima caccia al “modernismo”, Pio X.
Per Craxi il tentativo è inverso: dovremmo sorvolare sul privato (il suo cinico rampantismo, la sua negazione, anche irridente, di ogni questione morale, la sua arroganza, le sue amicizie e frequentazioni…) per celebrare quelli che i suoi ammiratori considerano meriti politici: la passione per il “moderno”, il decisionismo, il rifiuto di ogni rapporto con l’altro grande partito della sinistra, una presenza dell’Italia nel contesto internazionale meno prona alle decisioni di Washington, il reclutamento di una “giovane” classe politica, buona parte della quale (Cicchitto, Brunetta, Boniver, Sassone etc.) è ancora al potere, essendo prontamente transitata dalla sinistra storica alla destra arcoriana. Se a Pio XII si vorrebbe attribuire l’ingresso nella nomenclatura dei santi, a Craxi, nel decennale della sua morte, spetterebbe un posto di rilievo nell’Olimpo repubblicano, e perciò l’intitolazione di vie o di giardini… L’uno e l’altro, dunque, vengono proposti alle giovani generazioni come esempi da seguire.
Ma si può davvero scotomizzare il ricordo di una persona, scindendone la vita privata da quella pubblica, quando quella persona rivesta o abbia rivestito un ruolo tanto importante nella collettività da essere poi inevitabilmente considerato un modello e un modellatore dell’ambiente in cui ha vissuto? Domanda più che mai attuale; e a me pare che la risposta non possa che essere negativa: propensioni e scelte “private” incidono inevitabilmente nell’azione pubblica di un personaggio, mentre il potere facilita il cedimento alle sue inclinazioni.
Ho avuto nella mia lunga esistenza la ventura di vivere appassionatamente la vita della Chiesa, per trent’anni, durante il pontificato di papa Pacelli, e di stare in Parlamento fra il 1983 e il 1992, esattamente il tempo dell’apogeo di Craxi e della sua caduta. Nell’uno e nell’altro caso la sorte mi ha concesso di conoscere molti più fatti e testimonianze di quanti potessero arrivarne ai “non addetti ai lavori”. Così mi pare doveroso testimoniare che certamente Pio XII e Craxi ebbero qualità e realizzazioni che appartengono alla storia ma esse furono inficiate dai guasti delle intemperanze (per usare un eufemismo) personali.
Pacelli fu un maestoso protagonista di un tempo terribile e maestro di raffinata cultura ma anche uomo devastato da nevrosi e perciò rinserrato in gelida solitudine nel suo appartamento privato, con un gruppetto di devote suore con le quali parlava in tedesco; incline, per bisogno di affetto, al nepotismo e alla protezione di cialtroni come il suo medico personale che lo tradì in punto di morte, vendendo la sua cartella clinica e le foto della sua agonìa; eroico nel suo pessimismo, nella sua convinzione di dover reggere da se solo l’immane tragedia di un mondo avviato a un’imminente apocalisse; e perciò durissimo contro chi non divideva i suoi timori o le sue strategie e talvolta, consapevolmente o no, crudele nei confronti dei sottoposti, fossero essi diretti collaboratori del suo ufficio o umili servitori della sua corte; e questa aridità di carattere, questa incapacità di rendersi conto, per esempio, delle scelte dei poveri segnò tragicamente il suo pontificato.
La sua carità e la sua misericordia furono schiacciate dalle sue fobie. Non rimane da sondare soltanto la questione della sua difesa del popolo ebraico. Il papa che con pronta generosità aveva trasformato le sue ville di Castelgandolfo in bivacco di profughi dai bombardamenti romani, pochi mesi più tardi con i decreti del suo Sant’Offizio espulse, o fece espellere, dalle chiese italiane, milioni di operai, contadini, pensionati accusandoli di essere “senza Dio” mentre era evidente che la stragrande maggioranza di loro aveva scelto di dare il proprio voto alle forze di sinistra soltanto per ottenere, per sé, per i figli ma anche per tutti i poveri, una vita più degna.
Ricordo ancora con profondissima emozione le mie campagne elettorali in Lombardia, in Toscana e nel Veneto, il volto buono di anziani elettori del PCI, del tutto ignari del materialismo dialettico, che mi chiedevano di parlare del Concilio e poi mi domandavano: “Ma allora, se è vero quello che dici tu, perché i nostri parroci ci hanno cacciato? Perché ci hanno considerato pubblici peccatori?”. Come pensare che un esercizio siffatto di un magistero sovrano che negava misericordia e comprensione, diffondendo tanto dolore, sia stato esente da colpe?
Quanto a Craxi, come si possono dimenticare le responsabilità gravissime che egli ebbe nel deterioramento della politica italiana, diventando il maestro, in pratica e in teoria, di un’idea di “moderno” e di realpolitik in cui un individualismo senza princìpi pretendeva di sostituire quegli alti ideali di solidarietà che erano stati l’anima del glorioso partito socialista italiano e della Costituzione repubblicana? La pratica “corsara”, che per certi suoi interventi gli aveva fatto scegliere come protervo pseudonimo il nome di Ghino di Tacco, bandito di strada del XIII secolo, il suo gusto sultanesco che gli faceva trascinare per il mondo una piccola corte di “nani e ballerine” (per dirla con un suo eminente compagno di partito), la sua superba convinzione che un uomo come lui non poteva sottoporsi al giudizio dei tribunali, ebbe riflessi devastanti nell’esercizio del potere e nella crisi della politica italiana: Craxi fu, per molti versi, non soltanto il fedele am
ico e protettore di Berlusconi ma anche il suo ideale precursore. È a lui più che ad ogni altro dobbiamo se viviamo oggi in uno stato in cui il potere mediatico di un ricco può oscurare la Costituzione.
In Parlamento ho fatto parte di un gruppo (quello dei deputati della Sinistra Indipendente) duramente opposto al governo craxiano ma non, credo di poter dire, fazioso. Sono fra quelli che applaudirono Craxi per Sigonella e per gli aiuti alla causa palestinese: ma la sua azione di statista ebbe, anche in politica estera, aspetti nefasti: non posso, per esempio, dimenticare, per averne visto gli effetti con i miei occhi, la protezione continuata e vergognosa che egli diede alla corrottissima e sanguinaria dittatura somala di Siad Barre e del suo clan. Che poi D’Alema pensasse, dieci anni fa, che a un condannato in contumacia e latitante si dovessero fare funerali di Stato e che oggi siano in tanti a parlare non soltanto di riabilitazione ma anche di celebrazione è uno dei tanti segni che la fine del secolo XX e l’inizio del XXI si portano ancora dietro il rifiuto di riconoscere quando un re è nudo.
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Questa LETTERA (che interrompe il mio silenzio di cinque mesi in seguito a una rovinosa caduta e conseguente frattura di tre vertebre, e che vuole essere innanzi tutto un ringraziamento ai tanti e tante che mi sono stati vicini in quel frangente), era già pronta per la spedizione quando sono arrivate da Rosarno le tragiche notizie dell’insurrezione dei raccoglitori di frutta e della caccia al “negro”. È domenica. Mi domando, se posso andare a messa, come faccio abitualmente. Mi martella in testa un brano del vangelo di Matteo: “Se stai presentando la tua offerta all’altare e ti viene in mente che un tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì la tua offerta e va’ a riconciliarti con lui. Tornerai dopo all’altare”. Penso a quei mille poveri espulsi da Rosarno e mi domando se nel terrore che li mette in fuga, nel dolore dello sfruttamento, nell’esperienza di una vita da schiavi, si domandino, si siano mai domandati, se davvero l’Italia si possa definire una nazione cristiana; e se non ci gridino, nella tragedia che li travolge, che sì: hanno qualcosa contro di noi.
Decido di andare a messa, egualmente. Sento il bisogno del tepore di una comunità che preghi con me, esprima, almeno nel suo intimo, energie d’amore: penso che non posso chiudermi in un dolore “privato”, è con i fratelli e le sorelle con cui spartisco l’eucarestia che debbo vivere il rimorso per tanta ingiustizia fatta ai poveri con le nostre omissioni quando non le nostre opere: nostre, di noi Chiesa italiana. Domani rifletterò da cittadino ma oggi sento di dovermi innanzi tutto confrontare con il vangelo.
Risento ancora la voce buona di papa Giovanni: “La Chiesa, quale è e vuole essere, è la Chiesa di tutti ma particolarmente la Chiesa dei poveri”. Risento la voce profonda e commossa di Paolo VI che ammonisce: “Ostinandosi nella loro avarizia, i ricchi non potranno che suscitare il giudizio di Dio e la collera dei poveri, con conseguenze imprevedibili”; e proclama agli elogiatori dell’elemosina: “La giustizia è la misura minima (minima!) della carità”. Mi domando: nelle nostre comunità viviamo – e rendiamo visibile – questo volto della Chiesa, questa sua fondamentale vocazione di riconoscimento del volto del Cristo nel volto del povero? O ci siamo ridotti, pian piano, a un agglomerato di persone che cercano avidamente coraggio e consolazione per le loro privatissime paure, che dedicano al culto dei santi una venerazione assai superiore a quella per il Signore, che riempiono di quando in quando i grandi spazi delle celebrazioni papali ma subito dopo rifluiscono nel chiuso delle proprie case e nel rifiuto di ogni coerenza? Schiacciate, talvolta, da un amaro senso di impotenza, anche se non hanno mai tentato l’esperienza di un impegno? Questa fede, “morta senza le opere”, raggruppa senza problemi, nel suo seno, anche mafiosi e uomini politici cui l’acqua benedetta sembra lavare colpe senza pentimenti o addirittura annegare speranze e mormorii della coscienza.
Voglio dirlo: personalmente dedico più tempo a un continuo censimento delle testimonianze ecclesiali di fraternità (talvolta quasi eroiche) che ai guasti di un conformismo che non riesce più a celare paure ed ottuso egoismo, e la mia ricerca mi riscalda il cuore: quante Caritas, parrocchie, organizzazioni non governative, centri missionari (penso, per esempio, al meraviglioso Centro Astalli di Roma) lavorano per una fraternità generosa. Ma non per questo sono cieco di fronte alle caratteristiche dell’Italia d’oggi: la più evidente delle quali è che la scarsità del nostro impegno di cristiani ha dato vita a una nazione nella quale (e soprattutto nelle zone tradizionalmente considerate “bianche”) ogni formazione politica sa di dover fare i conti con forze regressive che amano presepi e crocifissi ma ignorano che Gesù non sta dietro il sughero dei presepi o nel povero gesso degli “oggetti d’uso” sui muri delle aule.
Sta, per sua chiara proclamazione, nella carne dei poveri, soffre della miseria di interi popoli, e dello sfruttamento di quelli che sono fra noi. Viviamo ormai in un paese in cui l’ottusa noia di giovani senza ingresso nel campo del lavoro moltiplica le infami crudelissime aggressioni ai senza tetto, in cui bande di italiani attaccano campi rom invece di premere per un inserimento dei nomadi nel tessuto delle città, in cui gran parte della ricchezza si basa sul lavoro “nero”: quello offerto da piccoli imprenditori senza scrupoli e quello coordinato dalle grandi centrali della mafia e della ndrangheta. Viviamo in un paese il cui ministro degli interni chiede che si diventi più “cattivi” nei confronti dei migranti, in una nazione, in cui, in contrasto con la Costituzione e con la Dichiarazione dei diritti umani, viene negato asilo ai profughi politici, e gli aiuti allo sviluppo dei paesi poveri sono ridotti a pura facciata, ma il presidente del Consiglio scrive al papa, all’inizio del 2010, che «i valori cristiani sono sempre presenti nell’azione del governo da me presieduto».
Impunemente: nel senso che assai raramente le nostre “gerarchie religiose” contrastano questa beata coscienza, di uno statista che concede mano libera al razzismo di un parte della sua compagine governativa. Papa Giovanni ci ha insegnato che il confiteor non va battuto sul petto degli altri e quindi occorre che ciascuno di noi riveda la propria vita. Ma è fuor di dubbio, a me pare, che salvo splendide eccezioni, la voce dei pastori della Chiesa italiana è flebile nel rivolgere il “non ti è lecito!” ai responsabili dello sfruttamento delle paure dei cittadini; e i documenti della CEI sono spesso vaghi nel condannare “ogni violenza”. Mi colpisce e mi addolora una constatazione: mentre gruppi di laici lavorano nel campo della solidarietà insieme ai sacerdoti delle congregazioni missionarie, la contestazione al razzismo come ideologia radicalmente contraria al vangelo è assai minore fra il clero diocesano, quello più legato disciplinar-mente ai vescovi e più a contatto con i “fedeli messalizzanti”.
Il razzismo fomentato dalla Lega e tradotto in leggi, decreti e prassi dal governo nazionale e da una pletora di governi regionali e amministrazioni comunali sembra a molti “buoni cattolici” soltanto una spiacevole contingenza, ben meno grave di tanti altri peccati e, del resto, non priva di ragioni; che esso semini un odio che abortisce speranze umane e neghi la dignità
di esseri viventi, sia causa di immensi dolori non dovrebbe portare i credenti (e, naturalmente, per primi, i loro pastori) alla chiarezza di un giudizio, troppo spesso, oggi, inquinato da interessi materiali? Non si tratta di emanare scomuniche ma di esplicitare la radicalità del vangelo. Ricordo di essermi sentito rovesciare come un guanto, ma anche spinto e sostenuto a un cammino luminoso, il giorno, ormai lontano cronologicamente ma non sbiadito nel mio cuore in cui un’assemblea mondiale delle Chiese protestanti, anglicane ed ortodosse, cui avevo partecipato con tanti altri cattolici “conciliari”, proclamò: “Chi non difende i poveri, non cerca che essi ricevano giustizia e dignità, non vede in essi la presenza del Cristo, costui è altrettanto eretico di chi nega l’uno o l’altro articolo del Credo”.
(15 gennaio 2010)
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