Svilimento e avvilimento della scuola italiana

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Due casi recenti, balzati all’onore delle cronache, avvenuti a pochi giorni l’uno dall’altro in questo febbraio 2018: il 2 a Caserta, in un Istituto Commerciale, uno studente diciasettenne rifiuta di sostenere un’interrogazione, riceve una nota (la seconda in due giorni) e davanti a tutta la classe sfigura al volto l’insegnante di Lettere con un coltello a serramanico; il 12 a Foggia, in una Scuola Media (pardon, in un Istituto Secondario di Primo Grado), il vicepreside viene aggredito, davanti ad altri genitori e ad alcuni alunni, dal padre di un alunno che il giorno prima era stato semplicemente rimproverato.

Due colleghi che sono finiti all’ospedale mentre lavoravano e svolgevano il ruolo di pubblici ufficiali: evidentemente, insegnare, anzi educare (tentare di farlo) è diventato, di questi tempi, un mestiere particolarmente rischioso.

La scuola è ora, sempre più spesso, un luogo di scontro e di violenza, altroché “alleanza educativa” tra essa e le famiglie, altroché “patto educativo di corresponsabilità”: di questi tempi, nessuna alleanza e nessun patto.

Si dirà che sono solo episodi isolati, che nella maggior parte dei casi la scuola continua ad essere una comunità educante. E’ vero, lo credo e lo spero.

Ma episodi del genere non devono essere sottovalutati, esattamente come non deve accadere per altri recenti fatti avvenuti al di fuori degli spazi scolastici.

Sono, a mio parere, sintomi evidenti che qualcosa si è spezzato ed urge ricomporlo. Siamo di fronte –  come negarlo? –  ad una seria emergenza educativa e culturale (le due facce della stessa medaglia), causata dalla crescente deresponsabilizzazione che si è concretizzata, a scuola e nella società, negli ultimi tempi.

A scuola è da qualche decennio che assistiamo alla svalutazione dello studio come impegno e come autentico “lavoro” intellettuale: coniugare nei fatti due semplici verbi come “insegnare” e “imparare” è sempre meno facile, anzi è decisamente fuori moda. Si è realizzata, in modo perfettamente simmetrico, una doppia operazione: da una parte uno svuotamento dei contenuti – mascherato da esigenze di una, del tutto supposta, modernità che privilegia le “competenze”, proprio nel momento in cui se ne registra invece quasi ovunque l’eclissi! –  e dell’importanza, valoriale e culturale, del “mestiere” (sembra persino troppo aulico oggi parlare di “professione”) dell’insegnante; dall’altra un accumulo, un sovraccarico di incombenze, più o meno pesantemente burocratiche.

Risultato sotto gli occhi di tutti: il preside, pardon il dirigente scolastico, ha molti tratti in comune col capufficio; il docente è una sorta di impiegato, più o meno di concetto, ma destinato fatalmente a diventare impiegato d’ordine, sempre più esecutore e sempre meno protagonista dell’azione educativa; la famiglia sorveglia, polemizza, critica più o meno aspramente, esattamente come si fa con l’addetto ad uno sportello o con chi deve erogare uno dei tanti pubblici servizi. E lo studente, o è una pratica da sbrigare o un indifeso alla mercé di quei prevaricatori degli insegnanti, che deve quindi essere sempre capito e giustificato , anche se gira con un coltello a serramanico.

Aver svilito la scuola, screditandone l’importanza, depotenziandone la missione educativa, immaginandone e volendone a tutti i costi la trasformazione in qualcosa di diverso (azienda? impresa? fabbrica? luogo di socializzazione? centro sociale?) è una grave responsabilità che ricade su tutti coloro che l’hanno, si fa per dire, “governata” negli ultimi vent’anni.

Aver vilipeso (e continuare a farlo) i docenti – basta considerare come di solito i media parlano della scuola, facendone emergere sempre e solo le “criticità” e mai o quasi gli aspetti positivi –  ha costituito e costituisce la premessa per legittimare la contestazione e il dileggio: triste vivere in un Paese che ha una così bassa considerazione di coloro ai quali affida (oggi per molto più tempo di prima) i propri figli.

Ultimamente viene chiesto di prepararli al mondo del lavoro, il prima e il meglio possibile: che poi si contribuisca a farli crescere moralmente e culturalmente, questo è del tutto secondario.

Con la favola, più o meno bella e più o meno in buona fede, della “neutralità” dell’educazione si è arrivati a questo: mi spiace, l’educazione non è, non deve essere neutra. E non deve “formare” persone eticamente neutre, ma critiche e capaci di distinguere il confine tra lecito e illecito, tra contestazione intelligente e violenza.
Altrimenti, perché stupirsi e lamentarsi dopo?

In altri sistemi scolastici, da noi scriteriatamente presi a modello, i casi di violenza sono certamente maggiori che nel nostro: vogliamo, probabilmente, metterci alla loro pari!

Un’ultima considerazione: sarà troppo sperare e chiedere sommessamente che chiunque vinca alle prossime Elezioni (ammesso e non concesso che ci sia un indiscusso vincitore) si ponga seriamente il problema dell’educazione e dia responsabilità di governo di tale settore a chi qualcosa ne sa e ne capisce? Magari ad un semplice docente, certo oggi molto più adatto di qualche Magnifico Rettore o Splendido/a Sindacalista!

Stefano Casarino

(14 febbraio 2018)



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