“The Great Wall” di Zhang Yimou
Giona A. Nazzaro
A cosa assomiglia oggi un cineasta di “regime”? Una volta, a torto o ragione, questa etichetta ingombrante se la portava addosso Sergej Fëdorovič Bondarčuk, regista accusato di propagandare l’estetica monumentale post- Andrej Aleksandrovič Ždanov del regime sovietico.
Il genere era inconfondibile: racconti bolsi, sovente tratti dai classici della letteratura, ridotti a bignami inerti e didattici, cui a volte si prestavano per meri motivi economici vecchie glorie del cinema europeo più o meno in disarmo. Vittime d’elezione di questi film, coloro che votavano comunista e che – per una malintesa idea di lealtà – mai avrebbero osato profferire parola contro film di provenienza sovietica.
Con la caduta del muro, cambia radicalmente il concetto di propaganda i cui ultimi scampoli (molto maldestri ma esilaranti) sono forse rintracciabili nei film di Chuck Norris realizzati per la Cannon (ma il discorso in questo caso è meno lineare che in quello di Bondarčuk). Oggi è la ripartizione territoriale dei territori dello sfruttamento cinematografico a ridefinire i margini del mercato dell’audiovisivo con la Cina grande chimera cui tutti guardano nella speranza di riuscire a ottenerne una fetta.
Il problema ingombrante del mercato cinematografico cinese – e volutamente semplifichiamo perché si tratta di una problematica molto articolata e complessa – è la censura; elemento che piega e reindirizza qualunque ipotesi di collaborazione e coproduzione. Dopo il 1997, momento in cui Hong Kong (e il suo mercato cinematografico) tornano alla Cina, la grande sfida è stata come convogliare in una vera e propria cinematografia di stato la libertà e la creatività del cinema dell’ex colonia britannica (da molti considerato il cinema cinese tout court anche se parlato in mandarino) in una forma di espressione nazionale e nazionalista, centralizzata esattamente come il capitalismo post-comunista di Pechino.
Senza addentrarci in ragionamenti di tipo economico (che pur sono ineludibili), il miraggio di allargare il proprio bacino d’utenza a dismisura, cosa che ha fatto sì che anche franchise enormi come Transformers o sequel attesissimi come Independence Day si piegassero alle leggi e richieste del mercato cinese, ha rivelato che i problemi di adattabilità e compatibilità sono in realtà più complessi e meno facilmente gestibili del previsto (senza contare tutte le problematiche inerenti al copyright…). Di fronte alle difficoltà di cavalcare il mercato cinese si è verificato invece che il mercato cinese cavalcasse (dirigesse) le produzioni cinematografiche. E per fare questo, ovviamente, ci vogliono registi affidabili.
In questo senso la parabola di Zhang Yimou è esemplare. Nonostante i problemi con la censura avuti all’epoca del lontano La storia di Qiu Ju, cosa che ha accompagnato tutti i suoi primi film da Sorgo rosso in avanti, il regista ha saputo riassestarsi rispetto alle richieste ed esigenze del regime (cosa che non è riuscita a Chen Kaige, cineasta infinitamente più interessante di Zhang Yimou). Questo suo riposizionarsi ha condotto alla regia dei giochi olimpici cinesi di cui questo The Great Wall sembra l’inevitabile propaggine cinematografica.
La bizzarria di tutta l’operazione The Great Wall è che dietro al film stanno alcune delle firme liberal più “evidenti” di Hollywood come il regista Edward Zwick, per esempio, è un divo dichiaratamente “engagé” come Matt Damon. L’altra è che la grafica digitale del film, che sa di cartone più che di green screen, sembra di almeno dieci anni fa (se confrontata alle meraviglie di operazioni come Doctor Strange, per esempio). In piena osservanza delle regole della censura cinese, si chiarisce subito che il film non è ispirato alla storia o alla realtà ma a una “leggenda” (e come la mettiamo con quanti preferiscono stampare sempre la “leggenda”?). Zhang Yimou, come un Bondarčuk post-cinema, s’affanna a immaginare un minimo comune divisore, una lingua franca del cinema digitale, fatta di immagini impossibili e coreografie rette da colori e scene di massa che tentano davvero di essere di… massa. Le musiche di Ramin Djawadi, autore noto per Il trono di spade, sono un pastiche esoticheggiante, medievaleggiante e le stesse scene all’interno della muraglia che ne presentano il funzionamento sembrano essere ispirate alla sigla del celebrato blockbuster Hbo.
Lo script del film è di quelli che si riassumono in una riga: mostri verdi attaccano la grande muraglia. Certo: ci sono i riferimenti ad Alien, ma sarebbe stato meglio se tutti i coinvolti nel progetto si fossero studiati meraviglie come Green Snake o Young Detective Dee – Il risveglio del drago marino di Tsui Hark, l’unico regista che abbia davvero tentato di praticare un cinema schiettamente “cinese”, e non solo la somma delle sue aspirazioni di quote di mercato.
Zhang Yimou, cineasta di regime, si mostra ligio alla commessa: dirige senza colpo ferire quel poco che c’è da fare, getta in continuazione oggetti contro lo schermo per giustificare il 3D (e non dimentichiamoci che è sempre lui che con Hero ha trasformato il wuxia pian in un genere apologetico del regime e non ci sono pugnali volanti che possano cancellare questa colpa…). Il suo essere inquadrato in un pensiero “ufficiale” lo si evince dal modo in cui il regista si piega senza colpo ferire a quella che lo sguardo ufficiale cinese ritiene essere l’estetica dello spettacolo digitale globale parodiandola involontariamente (?). Il cineasta scompare e resta solo la sua forza lavoro inerte (che aspira a un’astrattezza transnazionale pur essendo ultra nazionalista…).
Rispetto a collaborazionisti puri come Michalkov o Kusturica, Zhang Yimou se non altro ha la decenza di evitare (in questo caso) di farsi portatore di revisionismi vari, limitandosi a farsi messaggero molto sospetto dell’idea di globalizzazione digitale cinostatunitense, quella che dovrebbe garantire l’accesso a tutti i mercati. Successo enorme in Cina, fallimento al botteghino Usa, The Great Wall dimostra se non altro che il cinema, per fortuna o non ancora, non è un fatto di sole quote di spartizione del mercato. Per il momento, almeno.
(24 febbraio 2017)
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