“The perfect candidate”: il film saudita che infrange regole e tabù
Maria Giacometti
Dopo “La bicicletta verde”, la regista Haifaa al-Mansour torna a raccontarci un storia popolata di donne combattive, pronte a infrangere regole e tabù radicati nella tradizione patriarcale dell’Arabia Saudita.
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Maryam, figlia di un musicista e maggiore di tre sorelle, è una giovane dottoressa presso il pronto soccorso di una piccola città. Decisa a far riparare la strada che conduce all’ospedale, avendo chiesto invano alle autorità locali, si candida al consiglio comunale.
È questo lo spunto da cui prende il via la vicenda raccontata dalla pellicola The Perfect Candidate, che la regista Haifaa al-Mansour ha presentato all’ultima edizione della Biennale Cinema di Venezia. E da questi pochi cenni sembrerebbe una storia come un’altra. A renderla diversa è il fatto che Maryam non vive in un paese qualsiasi ma in Arabia Saudita, il che rende la sua una sfida praticamente impossibile.
Quello di donne combattive, pronte a infrangere regole e tabù radicati nella tradizione patriarcale dell’Arabia Saudita, è un tema caro alla regista. Già in La bicicletta verde, film presentato a Venezia nel 2012, al-Mansour aveva messo in scena la storia di una bambina che, nonostante le convenzioni sociali, grazie alla propria determinazione riesce a coronare il proprio sogno: quello di avere una bicicletta tutta sua.
In The Perfect Candidate – che può essere considerato alla stregua di un «romanzo di formazione», perché alla fine tutti risultano un po’ diversi, tutti hanno percorso un pezzo di strada che li ha cambiati – Maryam non si scoraggia di fronte all’immensità della sfida e con l’aiuto delle supertecnologiche sorelle inizia una campagna elettorale che la porta a sfondare le barriere di genere, sociali, patriarcali e religiose. Inizia con il togliersi il niqab per farsi vedere mentre enuncia le sue ragioni (e non lo metterà più); produce video che carica online; affronta gli uomini interloquendo con loro a tu per tu. Non si fa intimidire. E la sua sfida farà sì che accadano piccole grandi cose. Come il cambiamento che avviene in un anziano malato, che inizialmente non vuole essere né toccato né guardato da Maryam, e preferisce mettersi nelle mani di infermieri incompetenti, ma maschi, accidenti! Ma che quando la sua vita sarà in pericolo riconoscerà che Maryam è l’unica sua salvezza e alla fine non solo accetterà di essere visitato e curato, ma voterà per lei. In un universo così rigidamente patriarcale la regista ci racconta anche di uomini capaci di empatia e di scegliere, coraggiosamente, di stare a fianco delle donne.
Ovviamente non è tutto rose e fiori. A un certo punto del film, per esempio, Maryam deve prendere un aereo e per poterlo fare ha bisogno del permesso di un tutore. Un fatto che in noi suscita scandalo e che nella pellicola viene invece mostrato come ovvio anche per le donne, tutt’al più considerato una scocciatura che complica l’esistenza. Anche perché avere il permesso è di fatto scontato; ma è una delle tante pratiche burocratiche che rendono la vita quotidiana di tutti, uomini e donne, più macchinosa.
Il merito principale del film non risiede soltanto nella vicenda di lotta che racconta, ma nel fatto che ci restituisce il ritratto di un mondo sconosciuto dalle nostre parti. Perché è vero che la regista narra una vicenda di emancipazione femminile, ma nel farlo non rinnega la cultura, la tradizione, la stessa religione del proprio paese.
Il film ci mostra spaccati di vita che potremo definire «monosessuali»: donne a un matrimonio che in attesa degli sposi si divertono, ridono, cantano (e ci fanno venire voglia di essere lì con loro) salvo poi mettersi il velo e ricomporsi quando entrano gli uomini; uomini e donne che, rigorosamente separati, assistono a un concerto, e così via.
La musica è tuttora considerata dagli islamisti più radicali immonda e corruttrice. Per questa ragione abbiamo simpatia per il buon padre della protagonista, musicista appassionato di musica popolare; immaginiamo la sofferenza patita per la marginalità sociale della sua professione e per i pettegolezzi che hanno sempre dipinto la moglie cantante, morta da poco, quale pubblica peccatrice. Ora, per via delle riforme introdotte nel regno saudita, ha la possibilità di esibirsi in pubblico con il suo gruppo, di presentare un ricco repertorio di canti e musica tradizionali e di aspirare a un posto dignitoso presso un’orchestra pubblica.
E probabilmente il film stesso è stato reso possibile dalle seppur timide riforme introdotte in questi ultimi anni dal principe ereditario Mohammed Bin Salman: apertura di sale cinematografiche; fine del divieto di guidare per le donne (e difatti vediamo Maryam fieramente al volante); rivalutazione della tradizione musicale. Nonostante l’immagine di riformatore di Bin Salman sia stata offuscata dall’omicidio del dissidente Jamal Kashoggi nel consolato saudita di Istanbul (secondo l’Onu ci sono prove credibili del coinvolgimento dell’Arabia Saudita), i cambiamenti ormai messi in atto sembrano consolidati: basti pensare che la regista ha potuto girare senza problemi questo film mentre le riprese di La bicicletta verde erano state fatte di nascosto.
Aperture che la stessa Haifaa al-Mansour non manca di riconoscere e dalle quali fa derivare un compito: «Con la riapertura delle sale da concerto, dei cinema e delle gallerie d’arte in tutto il regno, è importante volgere nuovamente lo sguardo alla ricca storia artistica che abbiamo quasi perduto», scrive la regista nel Catalogo della 76.ma Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia: «Esiste musica bellissima e un ricco patrimonio di immagini che dobbiamo riportare in vita, restaurare e rafforzare all’interno della nostra società».
The Perfect Candidate – con la sua denuncia della difficile condizione delle donne in un paese islamico fondamentalista – non poteva che esserne il vincitore.
* Maria Giacometti ha fatto parte della giuria del Premio Brian all’ultima edizione del Festival del cinema di Venezia.
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