“The Tree of Life”. Il film galassia di Terrence Malick

Giona A. Nazzaro

, da Cannes 

La stampa presente in sala Lumiere accoglie The Tree of Life, il capolavoro di Terrence Malick, con bordate di fischi e vergognosi ululati. Si prova a contrastare con applausi sino alla fine dei titoli di coda. E oltre.
Inevitabile chiedersi: di cosa parliamo quando parliamo di cinema? Cosa è il cinema? Come fanno a non vedere certi “critici”?

In un concorso che sino a ora ha solo offerto brandelli di cinema interessanti (pensiamo ai lavori di Bonello, Maiwenn e Leigh), e mai opere in grado di spostare le linee della percezione e toccare il principio d’individuazione, The Tree of Life si erge come un umile gigante possente a ricordare a tutti cosa è il cinema.

Malick non filma, canta. The Tree of Life è un’opera-mondo che si dispiega con la leggerezza di un poema sinfonico-filosofico che mette in scena l’atto del filmare come atto del pensare il filmare stesso. Non un’immagine inutile, non un movimento di macchina scontato. Malick giunge alla fine del mondo e contempla il divenire del mondo come un percorso di scoperta della comunione delle cose e del mondo in un movimento dolcissimo e vertiginoso che abbraccia lo sguardo e lo conduce alle radici e oltre del cinema.

Probabilmente solo Avatar di James Cameron e The Turin Horse di Tarr Bela si sono posti con tanta potenza filmica il continuare a fare cinema dopo la fine del mondo.
Un lutto, la morte di un bambino, sfonda il perimetro dello sguardo e il film di Malick comincia lì dove finiva 2001 odissea nello spazio di Kubrick. Un viaggio oltre i confini del tempo e dello spazio. Un poema visivo che accetta di affrontare la sfida posta dal visivo per ritornare a raccontare con le immagini. Solo con le immagini.

Malick, con un’audacia e una libertà che non ha pari nel cinema d’oggi, salda in un unico percorso il cinema sperimentale americano, c’è tantissimo Stan Brakhage, addirittura Méliès per come chiama in gioco la “maraviglia” stessa, tornando alla radice stessa del filmico così come l’ha pensato D.W. Griffith.

Nel cuore di una famiglia texana, s’intravedono i germi di una rabbia giovane, cresciuta nelle badlands, un mondo muore e un altro nasce. In un solo ambiente domestico Malick affronta un viaggio che chiama in causa il gesto della creazione e la creazione stessa.

Come in Limite di Mario Peixoto, capolavoro marginale e fuori tempo massimo, oltre qualunque cinema novo, il viaggio dello sguardo è il viaggio del dispositivo di riproduzione. Malick però, pur avendo realizzato un film che inevitabilmente chiama in causa il cinema, racconta il mondo, ricollegandosi a un sentire che si apre come una vertigine paramnestica, in un fluire che permette al tempo e allo spazio di collassare in un eterno presente che diventa a sua volta estasi dello spazio dove il tempo cessa di esistere.

Oltre The New World, Malick restituisce il cinema al mondo attraverso una parabola biblica che brucia al sapore di William Faulkner.
Raramente il sud degli Stati Uniti è stato espresso meglio e con tale precisione documentaria con così poche immagini. Come nell’Urlo e il furore, Malick ascolta anche la voce dell’erba e delle piante. Tutte le voci risuonano contemporaneamente come in una polifonia che diventa la musica della terra.

Un padre (Brad Pitt, per sempre meritorio per avere avuto il coraggio di produrlo), Dio imperfetto, vuole insegnare ai figli come muoversi nel mondo, ma si smarrisce insieme a loro, per ritrovarsi in un Hereafter messo in una scena come performance del Living Theatre.

Malick sembra quasi reinventare la potenza di Faulkner nel suo tentativo di ascoltare persino l’erba che cresce. The Tree of Life porta tutto il cinema di Malick nei giorni del cielo in una tensione costante ad andare oltre.
E quando il film infine plana di nuovo in Texas, negli ambienti domestici retti da Brad Pitt e dalla modiglianesca Jessica Chastain (vista a Cannes anche nell’ottimo Take Shelter di Jeff Nichols), The Tree of Life ricomincia a tessere le fila di un racconto con una libertà che il cinema statunitense ha completamente rimosso.

In un flusso follemente (a)ritmico, con Malick che gira con una libertà rosselliniana, dimentico di qualsiasi virtuosismo, gli spazi della casa americana, dove si progettava un intero modello di vita, implodono, così come implode la casa di The Turin Horse di Tarr Bela, e ci si ritrova nudi di fronte alla vita.

The Tree of Life non assomiglia a nulla di quanto visto sino a oggi al cinema. E va persino oltre Avatar. Anzi: sembra avere compreso, assimilato e superato Avatar in un movimento di riconoscimento e reinvenzione che torna a una forma di cinema orale e sembra annullare qualsiasi ipotesi di scrittura in favore di un sentire cinematografico che rimanda inevitabilmente alle origini stesse del cinema.

Un cinema arcaico e incantato. Che assume su stesso, come aveva fatto D.W. Griffith, il senso del rischio e del pericolo, di tutto quanto si può ancora “dire” e fare con le immagini. Un cinema che si espande come una galassia. Che danza come un cosmo ebbro di vita ma che non teme di fiondare lo sguardo nel caos che genera vita.
L’immagine, in Malick, è sempre l’immagine che manca a se stessa, ciò che non si riesce a vedere/mostrare. Il margine dell’occhio che si acceca e torna a esplodere nel buio attraversato da tutto ciò che non è ancora stato visto.

Come in una preghiera pagana, The Tree of Life s’immerge nel flusso delle cose annulandosi in esso. Si galleggia e si vola nel cinema di Malick, si nuota, si nasce e si muore. Si guarda, si cerca, si vive. La grazia danza con il nulla e tra loro s’insinua lo sguardo che filma come se il mondo dovesse essere ancora visto.
Ed è proprio questa la profonda umiltà di Malick. Lui filma come un bambino che, per dirla con Goethe, si cala nel mondo per stupirsi. Per baciare la meraviglia. Lui, come Hendrix, bacia il cielo. E l’olocausto è il cinema stesso che torna a vivere ancora una volta.

Non capita molto frequente di essere testimone di un’opera che provoca una frattura nelle nostre consuetudine estetiche imponendo un radicale ripensamento delle nostre categorie critiche.
Terrence Malick, come D.W. Griffith, non ha fatto un film per l’oggi. The Tree of Life è il (cinema del) domani. Vederlo oggi, nel nostro tempo, è un privilegio.

(16 maggio 2011)

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