The young Pope. L’anno dei tre papi
Federico Ruozzi
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Il papa che Sorrentino porta sullo schermo e a cui Jude Law dà voce, anima e soprattutto corpo è Lenny Belardo “aka” Pio XIII. Inutile dire che è un papa bellissimo. Lo sa Sorrentino, che non ha scelto a caso l’attore britannico, lo sanno i telespettatori e lo sa pure lui: «Lo so, sono molto bello, ma la prego, ora cerchiamo di non pensarci», dirà in una udienza, lasciando attoniti gli astanti e il cardinale Voiello, interpretato da un bravissimo Silvio Orlando, che replicherà in un’altra occasione: «Lei è senz’altro bello come Gesù». Se il particolare fosse sfuggito, è la colonna sonora a riconfermarlo: la scena della vestizione del papa per il tradizionale primo discorso ai cardinali è accompagnata dalle note di I’m Sexy and I know it.
Inutile anche dire che le battute che Sorrentino fa pronunciare al “suo” young Pope sono diventate dei veri e propri apoftegmi, già virali nel web, sancendo così di fatto il successo della serie, che ha scritto e diretto per Sky, con la consulenza dello storico del cristianesimo Alberto Melloni: dieci puntate in onda su Sky Atlantic (il finale della prima serie in Italia è stato trasmesso il 18 novembre), The young Pope è una coproduzione internazionale con Canal+, Wildside e la statunitense HBO – madre delle serie più celebri nella cultura fandom, dai Soprano a Six Feet Under, da True Blood a Boardwalk Empire o Vinyl – su cui sbarcherà il prossimo 15 gennaio. Gli americani si troveranno così sugli stessi schermi, contemporaneamente, Donald Trump e papa Pio XIII. Per certi settori non minoritari del cattolicesimo americano un sogno, per altri un incubo, contro cui nulla può fare il telecomando: uno dei due resta (per il momento). E comunque un conclave, soprattutto dopo questo pontificato, potrebbe sempre riesumare un Pio XIII, nome impossibile da credere come lo era la scelta di “Francesco” fino al 2013. I segni dei tempi alle volte possono essere beffardi o male interpretati e non è la prima volta che il cinema anticipa di qualche anno il mondo reale (ne sa qualcosa Renzo Martinelli con il suo Piazza delle cinque lune, che ha sceneggiato sviluppi reali del caso Moro). D’altra parte lo stesso Sorrentino in un’intervista ha precisato come «il Papa che abbiamo trattato è all’opposto di quello esistente. Ma non è inverosimile. Anzi potrebbe esserci in futuro».
La messa in onda oltreoceano sancisce finalmente l’esportabilità delle serie recenti italiane e di questa in particolare (pensata molto guardando agli Stati Uniti) e chiude (si spera) la stagione lunga dello sceneggiato italiano buonista. Anche se occorre una precisazione: la serie non è una serie. Lo spaesamento del telespettatore è la cifra di questo testo, sia a livello di sceneggiatura, sia a livello formale. Se dal punto di vista narrativo, il disorientamento è provocato dal personaggio di Pio XIII, difficilmente inquadrabile secondo schemi interpretativi classici (buono o cattivo? progressista o conservatore?) – continua anche sul piano formale: per stessa ammissione di Sorrentino, The young Pope è costruito non tanto seguendo i meccanismi che regolano la serialità ormai diventata classica (vari fili narrativi che si intrecciano; storie verticali e orizzontali; finali di puntate costruiti ad hoc), piuttosto come un lungo film di 10 ore. Un elemento va invece nella direzione delle serie americane che tanto hanno fatto scrivere i critici televisivi, vedendo in esse la letteratura contemporanea degna di essere “letta”: la sigla. Quest’ultima, infatti, è un piccolo gioiello narrativo, che non ha niente da invidiare a serie che stanno facendo la storia della televisione (Nip/Tuck, Six Feet Under, Dexter, American Horror Story): piena di citazioni esplicite e implicite, tratte dalla storia dell’arte, anche contemporanea (da Caravaggio a Perugino, da van Honthorst ad Hayez, fino a La nona ora, di Maurizio Cattelan, colpita da un meteorite – decisamente più ateo e laico – che in origine era una stella cometa – quest’ultima più religiosa), e da riferimenti metatelevisivi: l’occhiolino di Pio XIII se a molti ha ricordato il Frank Underwood di House of cards, ai cultori delle serie non può non aver evocato lo sguardo in camera di Dexter Morgan, dell’omonima serie, ripreso anche lui in una camminata al rallenty. Il tutto accompagnato da una colonna sonora – Watchtower di Devlin – che è già cult.
Anche la sceneggiatura e la costruzione dei personaggi tendono a spaesare lo spettatore. Si sa che spesso lo Spirito Santo è distratto o si assenta dalla Cappella Sistina e così è stato per l’elezione di Belardo: su un candidato considerato debole, giovane e dunque facilmente manipolabile, soprattutto dall’esperto segretario di Stato Voiello, vengono fatti convergere i voti delle correnti progressiste. La strategia è volta ad evitare l’elezione del mentore di Belardo, il cardinale Michael Spencer, figura conservatrice decisamente più “autonoma” e indipendente, che da anni faceva le prove e stringeva alleanze (similitudini con la storia anche recente abbondano) per diventare papa. Il conclave consegna così al popolo cattolico il primo pontefice statunitense nella storia della chiesa. Belardo è molto giovane: sulla carta, come ci insegna la storia dei conclavi, il suo è pensato dunque non come un pontificato di transizione, ma di lunga durata. I giochi di potere volti a screditarlo o a farlo dimettere che si innescano fin da subito per le inaspettate e impopolari scelte del neopontefice si inseriscono proprio in questa consapevolezza dei cardinali.
Il telespettatore viene fin da subito messo di fronte alle contraddizioni dei personaggi. E, soprattutto nelle prime puntate, l’effetto di disorientamento riesce, a partire proprio dal nome scelto da Belardo che lo pone direttamente in continuità con i fasti della chiesa retta dall’ultimo principe di Roma, Pio XII, ma invece di suonare il piano e accarezzare gatti fuma e beve cherry coke per colazione, e indossa una tuta da ginnastica bianca con cappuccio. È lo stesso Belardo che afferma: «Io sono una contraddizione, come dio uno e trino, trino e uno, come la Madonna vergine e madre, come l’uomo buono e cattivo». E infatti, perlomeno nelle prime puntate, non si sa come collocare Pio XIII, che dice di sé: «Non sono solo saggio. Sono anche intransigente, irritabile vendicativo. E ho una memoria prodigiosa».
L’idea che il telespettatore si fa all’inizio della serie è quella di un pontefice conservatore, impenetrabile nella sua freddezza, inscalfibile nella sua rigidità nell’interpretare il magistero della chiesa, sicuro quanto bello, a tratti sadico. Può sembrare dunque che il tema della serie sia il governo, in questo caso il governo della chiesa. Tanto da far parlare di lui – in modo inappropriato – come il «Frank Underwood» del Vaticano. Jimmy Fallon al suo Tonight Show ha definito, infatti, la serie «House of Cardinals», evocando gli intrighi, i giochi di potere e di forza, le trame e la “macchina del fango” che viene avviata per imporre visioni che si ritengono non migliori, ma le uniche possibili per la sopravvivenza della chiesa nel terzo millennio. Tutto quello che può essere definito come il magistero di papa Francesco (una chiesa aperta e miser
icordiosa) sembra nelle prime puntate essere rifiutato dalla linea scelta da Pio XIII, che, almeno all’inizio, non può che suscitare disapprovazione, da parte dei cardinali (che cercano di farlo dimettere), da parte dei fedeli (che svuotano piazza San Pietro e le chiese), da parte dei giornalisti (alla caccia di notizie che sembrano non arrivare) e da parte del telespettatore. Che idea di chiesa rifiuta Pio XIII? Quella di una chiesa che perdona e che accoglie, che porge l’altra guancia, ma anche quella di una chiesa che monetizza le devozioni, che quantifica il peso economico delle offerte, per la sua sopravvivenza economica.
È interessante come a ordire tranelli contro di lui, a giocare sporco siano in particolare i gruppi progressisti interni al Vaticano, scardinando così un altro luogo comune che vuole i conservatori essere gli unici “cattivi” ad agire nell’ombra. Il machiavellico e scaltro segretario di Stato dà una definizione di potere che, in tempi di vatileaks, vale la pena riproporre: «Il potere cos’è? È conoscenza. Perché i peccati del passato ogni uomo finisce per ripeterli nel futuro. È come Dio, l’uomo: non cambia mai. Ma avere la conoscenza non basta. Sai cosa serve per essere più potenti di tutti gli altri? Avere la conoscenza per primi».
Dopo qualche puntata però la serie prende una direzione diversa e la figura monolitica di Pio XIII comincia a incrinarsi, ad essere più complessa. D’altra parte era stato lo stesso Sorrentino che aveva messo in guardia il pubblico al Festival di Venezia, dove erano state presentate in anteprima le prime due puntate: «Se avranno la pazienza di vedere la serie fino alla fine, si accorgeranno che questo è un lavoro che indaga sul clero con curiosità e onestà». E su questo aveva ragione. Se si continua nella visione della serie, ci si accorgerà, che, sequenza dopo sequenza, il personaggio granitico che si pensava di conoscere si rivela essere invece più fragile, ma anche a tratti più evangelicamente cristiano. È proiettato verso il passato della Chiesa, una chiesa certamente più tridentina che conciliare quella di Belardo, ma paradossalmente è anche contemporaneo. A tratti pare un papa medievale, altre volte un papa aperturista e postconciliare. Non solo. Le sue azioni sono sempre in bilico, tra bene e male, tra antimodernismo e aperture, tra cinismo e amore, e lasciano il telespettatore sempre più disorientato. Proibisce di fumare nelle grandi e vuote stanze del Palazzo apostolico avocando a sé il diritto di farlo; nomina suo segretario particolare una donna (suor Mary interpretata da Diane Keaton, che fuma e in privato indossa la maglietta con la scritta: I’m a virgin. But this is an old shirt); obbliga il suo confessore a rivelare i peccati dei suoi collaboratori di curia, per anticipare trame ordite contro di lui; manda in Alaska i suoi oppositori; riesuma tutto un apparato scenografico e liturgico e un guardaroba che il concilio Vaticano II aveva messo nell’armadio, dal triregno, ai flabelli, alla sedia gestatoria, al saturno e al camauro, fino alle scarpe di velluto o di seta, che impone forzatamente di baciare come simbolo di fedeltà.
Un papa che, nel primo discorso ai cardinali predica la chiusura delle porte («fratelli cardinali noi da questo giorno in poi non ci siamo, non importa chi venga a bussare alla nostra porta, da questo giorno in poi tutto ciò che era sempre aperto diventerà chiuso»), che afferma che «quando si parla di aborto la rigidità è l’unica alternativa. È inutile girarci intorno: è un crimine. Proibito e punito dal Libro dell’Esodo: capitolo 21, versi 22-25», ma, allo stesso tempo è il papa che incanta i giornalisti, durante il suo viaggio apostolico in Africa, con un discorso pieno d’amore, e i fedeli con quello pronunciato a Venezia, nella sua prima apparizione pubblica («Chi è Dio? Dio sorride»); capace di migliorare i propri collaboratori proprio a partire dalle loro debolezze e di amare in modo profondo, come mostrano le sue lettere giovanili all’amata, pubblicate inutilmente contro di lui, di grande empatia e di grandi gesti, che alcuni non tardano a chiamare miracoli. Prega, ma sempre per chiedere o, meglio, pretendere giustizia, pur permanendo il dubbio in chi gli sta vicino se «il papa creda o non creda in Dio». Perché di fatto questo è il focus principale, oltre a quello dell’abbandono. Puntata dopo puntata viene progressivamente a galla quello che di fatto è il tema forte di The young Pope, la solitudine della fede (come lo era stato per Il divo, con la solitudine del potere). Se le contraddizioni permangono, la figura di Pio XIII viene avvolta da un’aura di santità del tutto particolare. Un papa che appare reazionario e iconoclasta ma alla fine il più santo sembra essere proprio lui.
In tempi di sovraesposizione mediatica, in cui il pontefice assume le forme anche di supereroe – idea icasticamente fissata sui muri di Roma dall’artista Mauro Pallotta – il papa di Sorrentino – non casualmente interpretato proprio dall’affascinante Jude Law – predica invece l’assenza fisica. Non si fa vedere, non appare, se non in silhouette, provocando lo stupore del mondo dei media e della responsabile del marketing vaticano. Si potrebbe parlare di un magistero dell’assenza, che sostituisce quello della presenza wojtyliana:
Pio XIII: «Chi è lo scrittore più importante degli ultimi 20 anni?… attenta però, non il più bravo. La bravura è degli arroganti… L’autore che ha destato una curiosità così morbosa da diventare il più importante…?»
Sofia Dubois: «Non saprei. Philip Roth?» Pio XIII: «No. Salinger. Il più importante regista cinematografico?» Sofia Dubois: «Spielberg?» Pio XIII: «No. Kubrick. L’artista contemporaneo?» Sofia Dubois: «Jeff Koons?… Marina Abramovich?» Pio XIII: «Bansky. Il gruppo di musica elettronica?» Sofia Dubois: «Ohh, non so assolutamente niente di musica elettronica» Pio XIII: «E poi c’è chi dice che Harvard è una buona università… comunque, i Daft Punk. E invece la più grande cantante italiana?» Sofia Dubois: «Mina» Pio XIII: «Brava. Adesso lei sa quale è l’invisibile filo rosso che unisce tutte queste figure che sono le più importanti nei loro rispettivi campi? Nessuno di loro si fa vedere. Nessuno di loro si lascia fotografare».
È eloquente la scena in cui i giornalisti assonnati seguono l’Angelus domenicale, in una piazza San Pietro semideserta. Privati delle immagini, non sanno che cosa fare. Il papa parla, ma non appare, non si fa vedere e dunque il mondo della comunicazione è perplesso. Come se la notizia non risiedesse nei discorsi pronunciati, ma si trovasse unicamente nell’aspetto visuale/visivo. La non visione sembra provocare il torpore informativo. Apparirà pubblicamente solo alla fine dell’ultima puntata, non priva di colpi di scena.
Per un caso di cui la storia è piena, la serie dialoga con la realtà più volte in modo del tutto imprevisto. Nel VII episodio, in onda nella settimana in cui è morto Leonard Cohen, Pio XIII guarda la televisione che trasmette la puntata di X Factor in cui una concorrente reinterpreta l’Hallelujah del cantautore canadese, quasi fosse un omaggio alla sua musica. Così il discorso contro l’aborto di Pio XIII segue di alcuni giorni la riflessio
ne avanzata sul medesimo tema da papa Bergoglio nella lettera apostolica Misericordia et misera, per la conclusione dell’anno giubilare. Il 2016 si chiude dunque con tre papi viventi: quello regnante, quello emerito e quello televisivo.
* docente di Visual History e ricercatore di storia del cristianesimo all’Università di Modena e Reggio Emilia
(4 gennaio 2017)
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