Tre culture? Rileggendo “Il formaggio e i vermi” e “Masscult e Midcult”
Pierfranco Pellizzetti
che lui stesso ha tessuto’, come Geertz ha una
volta osservato, allora i mezzi di comunicazione
sono i filatoi del mondo moderno»[1].
John B. Tompson
«Il mondo mentale di chi non era illuminato
nell’età dei Lumi sembra perduto per sempre»[2].
Robert Darnton
Carlo Ginzburg, Il formaggio e i vermi, Einaudi, Torino 1976
Dwight Macdonald, Masscult e Midcult, Piano B edizioni, Prato 2018
“Il cosmo di un mugnaio del ‘500” era il sottotitolo del brillante saggio dello storico torinese, che applica al territorio friulano i modelli di ricerca sulla civiltà materiale messi all’opera soprattutto dalle terze generazioni della scuola francese de Les Annales (dopo i fondatori Marc Bloch e Lucien Febvre, il loro successore Fernand Braudel): Georges Duby per il Mâcon ed Emmanuel Le Roy Ladurie per la Linguadoca e il mondo occitano in genere. Sempre tenendo ben presente l’insegnamento braudeliano, secondo cui «dal medioevo ad oggi il capitalismo è stato spesso presentato come il principale motore o l’elemento propulsore del progresso economico. Mentre, in realtà, il peso di tale sviluppo è stato sostenuto dalle enormi spalle della vita materiale»[3].
Un approccio che necessariamente finisce per affrontare il controverso rapporto tra strati alti e bassi della società. Anche sotto il profilo culturale, inteso alla Clifford Geertz come produzione di significati per orientarsi nella realtà[4]. Dunque la coesistenza autonoma e l’eventuale interazione tra sistemi di rappresentazione accademici o di corte (cultura alta) e narrazioni popolari. Con tutti i dubbi che questo comporta, anche perché quanto ci è noto riguardo al complesso di saperi e (pre)giudizi tradizionali, definito per definizione “basso”, ci giunge esclusivamente attraverso la mediazione “alta”. In perfetta simmetria con il dato che quanto ci è noto dei popoli perdenti lo conosciamo soltanto in maniera indiretta; attraverso la trasmissione e il recupero da parte (e di parte) dei loro vincitori.
Alto-basso, vincitori e vinti, subalternità vs. autonomia, effettivo o apparente… Se lo chiede anche Ginzburg: «quanto si è detto fin qui mostra a sufficienza l’ambiguità del concetto di ‘cultura popolare. Alle classi subalterne delle società preindustriali viene attribuito ora un passivo adeguamento ai sottoprodotti culturali elargiti dalle classi dominanti, ora una tacita proposta di valori almeno parzialmente autonomi rispetto alla cultura di queste ultime, ora un’estraneità assoluta che si pone addirittura al di là, o meglio al di qua della cultura»[5].
Incontriamo Menocchio
Ecco dunque lo schema: un insieme di riti e credenze orali, veicolati da una religiosità primitiva di stampo contadino, vengono fatti emergere, messi in tensione e poi spinti a una sorta d’impazzimento dal contatto con il pensiero ufficiale delle élite dominanti. Nel caso in esame de “Il formaggio e i vermi”, il contrasto sovversivo tra arcaico e modernizzazione omologante, perseguita dal comando istituzionale (nel caso la Chiesa Cattolica; in altri, le nascenti monarchie assolutistiche), aveva ricevuto un’accelerazione da due grandi eventi storici: «l’invenzione della stampa e la Riforma. La stampa diede la possibilità di porre a confronto i libri con la tradizione orale in cui si era cresciuti, e le parole per sciogliere il groppo di idee e di fantasie che si avvertivano. La Riforma diede l’audacia di comunicare ciò che si sentiva al prete del villaggio, ai compaesani, agli inquisitori»[7]. Fermo restando che tutto questo avveniva in uno spazio disperso e – al tempo stesso – chiuso quale quello rurale, dove l’intrinseco deficit di relazioni come di apporti esterni favoriva la persistenza delle antiche narrazioni. Un mondo – tra l’altro – dominato da due sentimenti, che lo rendevano particolarmente vulnerabile dall’irruzione di concettualizzazioni alternative: la paura e lo smarrimento.
Un tema su cui abbiamo ricevuto contributi significativi dallo storico della mentalità Robert Darnton, con un approccio a dir poco singolare: l’esame delle favole popolari della tradizione orale francese; prima dell’opera di edulcorazione, che le aveva rese “presentabili” per pubblici aristocratici e alto borghesi, realizzata da Charles Perrault con il volume “Contes de ma mère l’Oye”. Racconti da cui, nella versione originale ante ripulitura, emergeva un mondo brutto, sporco e cattivo, dove Cappuccetto Rosso viene divorata dal lupo e la fame è condizione atavica di quei personaggi di estrazione rurale. Un mondo arbitrario e amorale, descritto con crudezza assoluta per scopi eminentemente pratici: «le fiabe» – scrive Darnton – «dicevano ai contadini com’era fatto il mondo, e indicavano una strategia per affrontarlo»[8]. Sicché ciò che rende così commoventi queste storie è l’imperscrutabile, inesorabile carattere di sventura che vi aleggia, non il lieto fine che spesso acquisiscono dopo il Settecento.
Torniamo – dunque – al laboratorio friulano.
Qui il personaggio centrale è un mugnaio – tal Domenico Scandella detto Menocchio – che sussume nella sua vicenda i rapporti contraddittori tra le differenti dimensioni culturali, favoriti dal suo ambiente di lavoro: il mulino, all’epoca luogo appartato e – al tempo stesso – sede di incontri e crocevia di idee, magari eretiche. Tanto da attirare i sospetti di Santa Madre Inquisizione, propensa a ritenere tutti i mugnai dei potenziali anabattisti. E questo vale anche per il nostro Menocchio; il quale – secondo il metro dei tempi – potrebbe essere definito un “acculturato”, disponendo di una diecina di libri, tra cui una Bibbia in volgare e il Decamerone.
Sulla base di queste letture, costui ha elaborato una sua teologia personale (“tutto quello che si vede è Iddio, e nui semo dei”: un’identificazione di dio con il mondo, così come i vermi nascerebbero dal latte) che non si perita di esibire a tutti i suoi interlocutori. Tanto da entrare nel mirino del tribunale ecclesiastico ed essere arrestato dall’inquisitore in persona – il francescano fra Felice da Montefalco – il 4 febbraio 1584. Nonostante gli inviti alla prudenza ricevuti dal figlio Ziannuto, davanti alla corte il mugnaio subisce una sorta di attrazione fatale: troppo ghiotta è l’occasione di esibire a un tale uditorio, colto quanto mai in passato aveva avuto modo di intrattenere, la sua “mente subtile” e le sue idee alternative a quelle della dottrina egemonica. E così parla a ruota libera. Una loquacità che lo conduce – inconsapevolmente – dritto alla condanna per eresia, alla tortura per fargli rivelare i nomi di eventuali complici e infine all’essere giustiziato.
Dunque l’esito finale del rapporto tra una cultura proto-storica sopravvissuta nelle campagne e i settori più avanzati dell’alta cultura cinquecentesca, che non autorizza a ipotizzare «una mera diffusione dall’alto verso il basso, secondo cui le idee nascono esclusivamente nell’ambito delle classi dominanti»[9]. Semmai si ripropone il tema delle radici popolari dell’alta cultura europea nella transizione post-medievale, di cui le figure di Rabelais e di Bruegel il vecchio sono lo straordinario punto di raccordo.
Come osserva ancora Ginzburg, «tuttavia esse chiusero un’età caratterizzata da profondi scambi sotterranei, in entrambe le direzioni, tra alta cultura e cultura popolare. Il periodo successivo fu contrassegnato invece sia da una sempre più rigida distinzione tra cultura delle classi dominanti e cultura artigiana e contadina, sia dall’indottrinamento a senso unico delle masse popolari»[10]. Uno scontro riconoscibile nelle crescenti jacqueries e nelle guerre dei contadini, nel regno anabattista di Münster come nello sforzo egemonico di evangelizzazione delle campagne ad opera dei gesuiti, l’intensificarsi di processi di stregoneria e il sempre più rigido controllo sui gruppi marginali come i vagabondi e gli zingari.
Inizia così quella che un cantore popolare ha definito “la guerra santa dei pezzenti”.
Le visioni del mondo – alte o basse che fossero – sono state radicalmente sovvertite da due rivoluzioni in sequenza, a partire dal XVII secolo: quella scientifica e quella industriale. Due sovvertimenti tellurici della società che hanno posto fine alle dispersioni spaziali delle comunità, nel passaggio dal modo di produrre agricolo (immutato nei diecimila anni della rivoluzione neolitica) alla produzione industriale: milioni di umani che abbandonano le campagne per essere ammassati entro i perimetri degli opifici, dove le confuse narrazioni identitarie evolvono in coscienza di classe, in sé e per sé. E insieme a questa costruzione dell’immagine proletaria del lavoro come riscatto, prende corpo una cultura, in larga parte organizzativa ma non solo, mentre le solidarietà di sangue nella famiglia allargata contadina vengono soppiantate dal mutualismo operaio a base sociale. Una cultura – “operaia” nelle sue declinazioni popolari – che contrasta, senza complessi reverenziali, quella egemone delle borghesie padronali, con cui troverà un trade-off epocale nel compromesso storico keynesiano-fordista della seconda metà del Novecento.
Intanto il modo di produrre fordista, che soppianta quello artigiano per imporre i criteri di standardizzazione, diffonde la massificazione in ogni ambito del sistema sociale[11]. E qui arriva il nostro Macdonald (giornalista iconoclasta, rampollo della Grande Mela newyorkese, dal percorso intellettuale frastagliato: già trozkista e poi radicale “contro-americano”) con il suo saggio del 1960, – riproposto di recente da Piano B in una nuova edizione italiana – in cui ci imbattiamo subito nel primo aspetto del processo che marginalizzerà la cultura operaia attraverso la mercificazione e l’intrattenimento: Masscult, cultura di massa.
«Fino ad allora erano esistite soltanto la Cultura Alta e l’Arte Popolare. Entro certi limiti, il Masscult è il prosieguo dell’Arte Popolare, ma le differenze tra le due produzioni sono più rilevanti delle somiglianze, L’Arte Popolare si è sviluppata principalmente dal basso, in quanto prodotto autoctono creato dal popolo per le proprie esigenze, per quanto si ispirasse spesso vagamente alla Cultura Alta. Il Masscult invece scende dall’alto. Viene concepito e prodotto da tecnici al servizio di imprenditori»[12]. Una forza dinamica, rivoluzionaria, che abbatte le vecchie barriere di classe, tradizione e gusto, dando vita a un prodotto omogeneizzato. Eterodiretto.
Nel secondo dopoguerra il Masscult viene affiancato da un ibrido, nato da rapporti contro natura della Cultura Alta, che Macdonald denomina Midcult, un fenomeno di marketing, per cui «il Midcult è un’infiltrazione del kitsch nelle opere con ambizioni serie». L’insolita mescolanza «avant-garde e kitsch» collega un imbarbarimento del gusto a seguito di sommovimenti sociali conseguenti all’ascesa del cosiddetto nouveau riche, il cui rampantismo è molto più aggressivo e auto-compiaciuto del solito.
Tanto che l’insofferente Macdonald si chiede: «non è forse vero che, a tempo debito, queste classi verranno assimilate nella Cultura Alta? O almeno, in passato succedeva così. Ma io credo che oggi le cose siano cambiate. Prima del secolo scorso, i canoni esistenti erano generalmente accettati da tutti e le classi in ascesa si sforzavano di adeguarsi. Oggi, però, a causa delle conseguenze distruttive del Masscult, i canoni non sono più universalmente riconosciuti. Il rischio è che i modelli del Midcult, anziché essere transitori – “il prezzo del progresso” – possano diventare essi stessi un nuovo canone permanente, un canone più povero di quelli precedenti»[13].
Nell’accorata denuncia di un’invasione particolarmente aggressiva e non riassorbibile del parvenu, degli arrampicatori sociali che considerano i propri modi e criteri la quintessenza dell’apprezzabilità, è tutto un mondo delle buone maniere e del buon gusto che rischia il macero. Da qui l’insofferenza ricorrente di quanti potremmo definire “aventiniani del proprio tempo”, a cominciare nel 1930 con José Ortega y Gasset e la sua denuncia dell’uomo volgare («il dominio che sulla vita pubblica esercita oggi la volgarità intellettuale, è forse il fattore più nuovo dell’odierna situazione»[14]), per proseguire con il duo di sussiegosi accademici tedeschi Max Horkheimer e Theodor Adorno, sfollati negli States per sfuggire al nazismo eppure risentiti per l’impatto con un ambiente che non sentivano alla propria altezza e di cui denunciavano il vizio intollerabile di ridurre la cultura a merce di consumo, l’industria culturale come banalizzazione sistematica («la civiltà attuale conferisce a tutto un’aria di somiglianza. Film, radio e settimanali costituiscono un sistema»[15]) e – infine – chiudere il breve giro con l’odierno reazionario sublime Marc Fumaroli: «oggi la parola cultura è diventata una parola americana che significa divertimento, entertainment. Distrazione dominata dal denaro e dalla logica del successo, show business che produce una cultura-mondo indistinta in cui si perde ogni peculiarità»[16].
Certo, viviamo tempi volgari, in cui l’opera d’arte ormai da un secolo è diventata puro oggetto di investimento intermediato da galleristi-mercanti, ossia – come disse Walter Benjamin – nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. A maggior ragione in questa stagione in cui la possessività economico-speculativa ha preso in ostaggio politica ed estetica.
Eppure – ci si chiede – è mai esistita una dorata Età dell’innocenza? Non a caso le categorie sciorinate da Dwight Macdonald risultano di rara vaghezza: cosa sta a rappresentare il rimpianto modello del “vero artista” avanguardista, magari un’impressionista, quando le opere di un caposcuola di quel movimento (indicato come emblematico della vera arte-arte dal Macdonald) – Pierre-Auguste Renoir – sono ormai perfette per illustrare i coperchi delle scatole di cioccolatini; se – come si afferma – «in passato la Cultura Alta poteva rivolgersi solamente ai connoisseur»[17] quale ente certificatore accrediterà tale loro titolarità, chi ne validerà le competenze?
Quasi si direbbe che lo scandalo declassante consisterebbe nella mercificazione, il rapporto interessato con il denaro (“sterco del demonio”?). Quando, da che mondo è mondo, anche la cultura altissima ha cercato sempre di fare i conti con rapporti di committenza su base monetaria e comunque trovava la propria (spesso non semplicemente decorosa) sussistenza nella relazione di mecenatismo.
Anche ai sommi vertici della piramide della bellezza (per inciso, chi stabilisce per l’eternità cosa è bello e cosa no?).
Valga per tutti il caso di un grande pittore novecentesco, non di rado sublime e che tutta la congrega dei nostalgici del buon tempo andato collocherebbe di certo nella casella dell’eccelso: Salvador Dalì. Cui il poeta surrealista André Breton aveva affibbiato un significativo nomignolo, storpiandone con un gioco di parole il nome originario: Avida Dolars.
L’11 maggio 1904.
[2] R. Darnton, Il grande massacro dei gatti, Adelphi, Milano 1988 pag. 19
[3] F. Braudel, La dinamica del capitalismo, il Mulino, Bologna 1988 pag. 64
[4] C. Geertz, Interpretazione di culture, il Mulino 1987
[5] C. Ginsburg, Il formaggio, cit. pag. XVII
[6] C. Ginzburg, I Benandanti, Einaudi, Torino 1966 pag. 192
[7] C.Ginzburg, Il formaggio, ivi pag. XXIV
[8] R. Darnton, Il grande massacro, cit. pag. 73
[9] C. Ginzburg, Il formaggio, cit. pag. 145
[10] Ivi pag. 146
[11] M. J, Piore e C. F. Sabel, Le due vie dello sviluppo industriale, ISEDI, Torino 1987 pag. 47
[12] D. Macdonald, Masscult e Midcult, cit. pg. 29
[13] Ivi pag. 81
[14] J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, il Mulino, Bologna 1962 pag. 65
[15] M. Horkheimer e T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1976 pag. 130
[16] M. Fumaroli, “Non lasciamo vincere l’arte americana”, Robinson – la Repubblica 19 marzo 201709p76yyy
[17] D. Macdonald, Masscult, cit. pag. 54
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