Troppi mercanti nel tempio di Cristo, ovvero le trame della “santa” finanza
Anna Rita Longo
Quel Gesù di Nazareth che non ci pensò un minuto a scacciare con forza i mercanti dal tempio di Gerusalemme e che sosteneva l’impopolare parere secondo il quale non era possibile servire a due padroni, Dio e mammona, che cosa penserebbe oggi se sapesse che proprio coloro che si dichiarano i suoi epigoni non solo accolgono a braccia aperte nei propri templi mercanti di ogni genere (compresi quelli senza scrupoli), ma sembrano anche devoti del dio denaro?
Paolo di Tarso che definiva l’amore per il denaro «la radice di tutti i mali» e il grande dottore della chiesa Tommaso d’Aquino che, chiosando il detto paolino, sottolineava come il cristiano dovesse «desiderare il possesso delle ricchezze in quanto necessarie alla vita» e non superare assolutamente questa misura, che cosa penserebbero se potessero essere edotti del “libero pensiero” della chiesa cattolica attuale in merito alle questioni finanziarie? Il concetto di tradizione (l’ideale consegna del messaggio cattolico da Cristo ai suoi successori) e quello di ortodossia (retta dottrina) sembrano farsi più elastici del solito in materia di soldi, perché in nome di questi nessuna deviazione dai principi cardine della fede sembra impossibile.
Ferruccio Pinotti, nel suo interessantissimo saggio "Finanza cattolica", di recente uscito per i tipi di Ponte alle Grazie, parte da una considerazione molto simile. Sarebbe infatti molto bello – sottolinea l’autore – se davvero si potesse parlare di una finanza ispirata ai principi della fede cattolica. Una finanza autenticamente aderente al messaggio di Cristo dovrebbe rifarsi a valori come la giustizia, l’onestà, l’uguaglianza, la solidarietà sociale. Sarebbe talmente auspicabile, per l’indubbio valore filantropico, da non correre il pericolo di essere avversata neppure da chi non si riconosce nella fede cattolica. Ma come ebbe modo di notare lo stesso cardinale Angelo Scola, se si scende nel campo delle operazioni finanziarie che vedono coinvolti gli ingenti capitali degli enti ecclesiastici, banchieri e finanzieri sono cattolici sì, ma solo al termine del loro orario d’ufficio. Ben altri, e Pinotti non manca di farlo notare nella sua lucida e informata analisi della finanza bianca, sono i principi che li ispirano quando operano le loro speculazioni.
Ferruccio Pinotti non è certo un neofita delle inchieste roventi, che non di rado coinvolgono la chiesa e i retroscena della sua azione, che non sempre sembra avere come scopo primario l’evangelizzazione. In precedenza si era occupato, ad esempio, dei lati meno noti e meno lusinghieri dell’Opus Dei (BUR 2006) e di Comunione e Liberazione (Chiarelettere 2010) oppure degli aspetti meno edificanti del pontificato di Karol Wojtyla (Chiarelettere 2011).
L’autore decide, invece, ora di occuparsi del tristo legame tra finanza e organismi cattolici, in un percorso che prende le mosse da molto lontano. Il capitolo primo, curato dall’economista Giorgio Noto, traccia, infatti, i lineamenti storici del legame finanza-Vaticano, partendo dallo scandalo della Banca Romana che travolse l’Italia all’indomani della sua unificazione. Procedendo attraverso questa prima brutta storia di intrighi e trame all’ombra del Vaticano, si esaminano poi i rapporti tra fascismo e Santa Sede, quindi la parabola della laicità dello stato invano sostenuta da Don Luigi Sturzo, la figura di Enrico Mattei e il suo ruolo di regista nell’ambito dell’ENI, fino a giungere agli anni Sessanta, nei quali Noto individua il momento in cui il potere cattolico nella società italiana diventa strutturale, perdendo il carattere dell’occasionalità. Da quel momento la storia sembra essersi fermata e i gravi scandali finanziari nei quali la chiesa è stata coinvolta non sono altro che la naturale conseguenza di una laicità dello stato più inesistente che imperfetta.
Particolarmente interessanti sono i singoli capitoli dedicati ai grandi “mercanti nel tempio del Signore”, da Sindona a Calvi, da Bazoli a Fazio, senza dimenticare il ruolo decisivo rivestito da pii uomini di chiesa (alti prelati e futuri pontefici). Ugualmente scioccante il puntuale resoconto dei diversi ambiti attraverso i quali la chiesa si muove venendo ad assumere un ruolo decisivo nelle dinamiche sociali del Paese: banche popolari, Cattolica Assicurazioni, rapporti continuativi e intensi con la grande impresa (e coinvolgimento nei più gravi scandali come il crac Cirio e Parmalat), controllo capillare dei mezzi d’informazione sono solo alcuni dei rami della tentacolare azione dell’“impresa” vaticana in Italia. Addirittura inquietante, sotto certi aspetti, l’analisi dell’influenza profonda, strutturale, organica – cementata attraverso una complicatissima rete di clientele che non esclude politica, massoneria e malavita – di associazioni che vantano scopi puramente spirituali e filantropici, vale a dire l’Opus Dei e Comunione e Liberazione.
C’è chi, non a torto, ha sottolineato che Pinotti non fa che riferire fatti tutto sommato già ampiamente noti, ma, a mio avviso, non va trascurata la forza di denuncia derivante dall’enumerazione, dal cumulo più che dalla singola accusa. Come mai prima al lettore viene presentato il desolante quadro di una Chiesa che non potrebbe essere più difforme dai dettami della Caritas in veritate di Ratzinger, senza bisogno di adoperare toni esacerbati, perché i fatti parlano da sé. E di questo stato alle dipendenze di un Vaticano onnipresente, artefice di un monstrum come l’ascesa di Berlusconi, tanti Italiani si sono probabilmente ormai stancati. Ben vengano, dunque, libri come quello di Pinotti a ricordarcelo.
(17 gennaio 2012)
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