Trump contro Twitter e la battaglia per la libertà online

Matteo Flora*

 
La diatriba fra Donald Trump e Twitter è molto di più dell’ennesima sparata di un capo di stato in manie di protagonismo: è l’inizio di un serissimo dibattito sulla libertà di espressione online. Perché quanto fatto dal social network travalica ampiamente i diritti concessi anche dalla normativa americana. E questa volta dobbiamo riflettere seriamente sulla possibilità che Trump abbia ragione e che davvero i social network, nella loro attuale configurazione, possano rappresentare una minaccia per la tenuta democratica del dibattito politico.

La battaglia tra Twitter e Trump è decisamente più grande rispetto a quanto emerge dai media e ha a che fare con il futuro stesso di tutto quello che noi pensiamo sia Internet. In questo intervento, voglio provare a raccontarvi che cosa è censura e cosa no, cos’è la sezione 230 del Communications Decency Act e cosa ci attende nel prossimo futuro. Perché, da un certo punto di vista, Donald Trump ha ragione.

Nel panorama della rete è successo qualcosa che agli occhi di un semplice lettore, ma anche di un giornalista, può sembrare strano e nuovo, ma che gli esperti del settore stavano guardando da tempo con interesse proprio nella direzione indicata da Donald Trump. In molti articoli potete leggere la notizia che Twitter ha censurato il presidente degli Stati Uniti d’America, ma ciò non è assolutamente vero. Come non è vero che Twitter avrebbe «oscurato» Trump.

Twitter ha, tuttavia, fatto qualcosa forse ancora più grave: era febbraio quando il social network raccontò alla stampa di aver iniziato a lavorare a una nuova funzione per segnalare le notizie false condivise da politici e, in generale, da personaggi pubblici[i], applicando così le regole relative alle fake news e alle notizie cosiddette «misleading», ingannevoli, che potrebbero traviare l’opinione delle persone. Una funzionalità, questa, presente da tempo su Twitter: fino a quel momento, però, i politici avevano avuto una sorta di immunità verso le normali regole della piattaforma, il che non è una cosa di per sé sbagliata se consideriamo che una figura politica ha il compito di creare dibattito pubblico e, pertanto, potrebbe aver bisogno di regole – diciamo così – un po’ meno stringenti.

Il primo elemento da considerare è il fatto che il “precedente”, il primo caso, sia relativo a un link condiviso proprio da Donald Trump: l’intervento è relativo a un tweet del 26 maggio in cui Trump parla del «mail-in ballot». I fatti sono i seguenti: la pandemia ha interrotto gran parte della vita «normale» e un gran numero di Stati americani negli ultimi tempi ha preso in considerazione il voto per corrispondenza. E, sebbene la maggioranza degli americani la sostenga come una soluzione volta a garantire il distanziamento sociale in vista delle elezioni autunnali, Trump ha denunciato come questa modalità di voto sia terreno fertile per brogli elettorali. Si tratta, obiettivamente, di affermazioni non solo sbagliate, ma addirittura fraudolente. La sua denuncia parte da un presupposto errato: che le schede saranno inviate anche ai cosiddetti «illegal». Falso. Gli unici destinatari delle schede elettorali per l’elezione a distanza saranno i «registered voters», cioè gli elettori registrati e che, in quanto tali, hanno diritto di voto. Risultato: Twitter ha applicato al tweet di Trump un messaggio che avvisa i followers del presidente e, in generale, tutti gli utenti del Social Network: «Get the facts about mail in ballot». Ovvero: verifica i fatti rispetto a questa discussione. Come prima fonte autorevole, il link rimandava a un articolo della Cnn[ii], non esattamente l’organo di informazione più neutrale dell’universo nei confronti di Trump. E anche questo è un problema da tenere in considerazione.

Da quel «bollino» applicato da Twitter sul profilo di Donald Trump inizia un vero e proprio scontro tra il presidente Usa, il quale avverte che «dobbiamo fare qualcosa in merito», e Twitter che rincara la dose modificando la visibilità di un altro tweet di Trump, stavolta contro le proteste scaturite dall’omicidio di George Floyd. La motivazione addotta dal social network è che il tweet era contrario alle policy in merito all’intimidazione, alla violenza e all’odio: «Questo tweet ha violato le regole sull’esaltazione della violenza, tuttavia abbiamo deciso di non eliminarlo perché potrebbe essere di pubblico interesse».

Il tweet viene quindi «coperto», ma cliccando si può comunque vederlo. Da quel momento è un’escalation di polemiche, con il presidente Usa che ribadisce: «Bisogna fare qualcosa perché Twitter sta interferendo con le elezioni presidenziali che si terranno quest’anno».

Trump rispolvera quindi dall’anticamera dei decreti un executive order, un provvedimento della Casa Bianca che indirizza le politiche esecutive delle agenzie del governo federale. Di fatto è un «orientamento» con cui il presidente chiede a una serie di autorità di fare determinate cose: non è un ordine, ma un orientamento da prendere in considerazione in qualsiasi tribunale.

In questo executive order Trump centra una serie di punti fondamentali. Per tutti coloro che parlano di censura da parte di Twitter: non è così, non è censura a nessun livello, perché nessun contenuto è stato rimosso dalla piattaforma. In un caso è stato appiccicato sotto a un tweet un «alert fake news», nell’altro il tweet è stato oscurato, ma è rimasto comunque visibile.

Sicuramente, c’è stata una modifica della visibilità del tweet di Trump. E qui entriamo in un campo minato: i social possono infatti bloccare senza eliminare non solo singoli tweet, ma profili e pagine. È accaduto spesso, in passato: Twitter ha il potere di interferire in maniera importante sulla visibilità dei contenuti, ad esempio ricorrendo ai famosi «shadowban», lasciando in apparenza tutto com’è, ma riducendo la possibilità che un utente o una pagina appaia nelle ricerche o tra i suggerimenti. Un messaggio che prima veniva visualizzato da un milione di persone può essere ridotto nella sua viralità a diecimila. Una riduzione della visibilità che, alla fine della fiera, significa limitare un’opinione all’interno del dibattito pubblico.

L’executive order di Trump entra perfettamente nel merito della questione: i termini e le analisi alla base del provvedimento sono estremamente precisi e, leggendolo, si capisce subito che i repubblicani hanno ben compreso il problema (a differenza, dobbiamo dirlo, degli esponenti della sinistra, a tutti i livelli). «Twitter, Instagram, Facebook e YouTube – si legge – hanno un immenso potere nel formare l’opinione delle persone: possono censurare, cancellare, far sparire informazioni e – questo il punto centrale – controllare cosa le persone vedono o non vedono».

E ancora: «Come presidente il mio obiettivo è aprire un dibattito sull’Internet libero e aperto. Un dibattito importante per sostenere la nostra democrazia. I social stanno facendo una censura selettiva che sta colpendo il dibattito pubblico, selezionando c
ome ‘inappropriati’ una serie di contenuti che, tecnicamente parlando, non violano i termini di uso e servizio. Fanno continui cambiamenti, non annunciati, alle loro policy sfavorendo alcuni punti di vista e cancellando i contenuti di interi account senza preavviso e senza possibilità di appello». Ebbene, tutto ciò che dice Trump è vero.

Il problema, ovviamente, è nelle conseguenze di questa analisi. La prima cosa che Trump ha dichiarato di voler fare è riformare la sezione 230 del Communications Decency Act. Non si tratta di una riforma qualsiasi: Trump vuole mettere mano a quelle che Jeff Koseff chiama «Le 26 parole che hanno creato Internet»[iii].

La sezione 230 è composta, infatti, da 26 parole: «No provider or user of an interactive computer service shall be treated as the publisher or speaker of any information provided by another information content provider».

«Nessun fornitore o utente di un servizio informatico interattivo dovrà essere trattato come editore o autore di qualsiasi informazione pubblicata da un altro fornitore di contenuti informativi».

In altre parole, nessuna piattaforma online potrà essere accusata di essere un editore per «qualcosa» pubblicato da «qualcuno» sulla propria piattaforma. Di fatto, si tratta di un’esenzione di responsabilità relativa ai contenuti che gli utenti pubblicano su una piattaforma: è grazie alla sezione 230 del Communications Decency Act se Twitter, Facebook, Instagram, YouTube e altri Social Network non possono essere considerati degli editori. Grazie a queste 26 parole negli USA non si può ritenere responsabili – e quindi fare causa – i social network per i contenuti postati dagli utenti. E ancora: i titolari delle piattaforme non possono essere considerati colpevoli per i contenuti pubblicati se – in buona fede – rimuovono quei commenti, post, tweet, che possono nuocere il pubblico interesse. Dietro questa costruzione giuridica c’è il potere di cui si sono arrogate le piattaforme di poter rimuovere a loro discrezione contenuti che violano i termini di uso e servizio.

Trump usa questo provvedimento giuridico per attaccare i social: «Attenzione – dice – questa ‘garanzia di legge’ non può essere utilizzata da parte delle piattaforme per rimuovere contenuti che non sono, in alcun caso, osceni o violenti. Spesso e volentieri questa normativa viene usata dalle piattaforme per mettere in atto strategie addirittura contrarie ai propri termini di uso e servizio con l’obiettivo di spostare o oscurare le opinioni con cui non sono d’accordo».

In pratica, Trump sta dicendo che questa facoltà viene usata selettivamente dalle piattaforme per cancellare le opinioni avversarie. Ecco, è a partire da questo punto che dobbiamo aprire il dibattito. Un dibattito enorme, come enorme è il problema sollevato.

Trump ricorda poi che sono state ben 16mila le segnalazioni di potenziali violazioni commesse dai social network ai danni degli utenti arrivate alla Casa Bianca nel 2019[iv] tramite il servizio chiamato «Bias setting reporting tool», in cui sono stati raccolti tutti i casi in cui profili e pagine sono stati oscurati o chiusi. E ora Trump, a partire da questi dati, chiede che venga formata una commissione di inchiesta per controllare se le piattaforme abbiano o meno pregiudizi politici. Per analizzare se esiste quella che in Italia definiremmo «par condicio» sul web.

Stando così le cose, c’è poco da dire: le grandi piattaforme online stanno manipolando la visibilità di alcune informazioni rispetto ad altre usando lo strumento dei «termini di uso e servizio» che ogni utente accetta al momento della registrazione. Il problema, però, è che queste condizioni cambiano e a decidere quando e come sono le piattaforme stesse.

C’è poi un’altra questione sollevata da Trump. Rimuovere o meno un articolo, mettere in maggiore o minore evidenza un commento o un’opinione, è esercizio tipico di una professione: il direttore di un organo di informazione. È puro esercizio editoriale. Il fatto di nascondere alcuni attivisti, come accaduto con i sostenitori di Edward Snowden o Chelsea Manning, è un intervento sulla piattaforma e sull’opinione pubblica coperto dalla «scusa» dei termini di uso e servizio.

Siamo davanti a un bivio storico: non si può essere, da un lato, non responsabili per quello che c’è su una piattaforma e, dall’altro, avere il potere di intervenire a proprio piacimento sui contenuti. Se ho la possibilità di rimuovere articoli, post, commenti, tweet, devo essere ritenuto responsabile di quello che non rimuovo.

C’è poi un’altra questione, ancora più grande: chi decide cosa è menzogna e cosa verità? Quis custodiet ipsos custodes? Chi sorveglierà coloro che sorvegliano?

Una cosa è certa: i social non sono un posto facile in cui stare ed è chiaro che, per come stanno andando oggi le cose, l’attuale funzionamento è destinato a implodere.


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Modificare la visibilità di un utente o di un altro significa intervenire nel dibattito pubblico. Le piattaforme possono azzittire una parte politica, renderla meno importante, o – al contrario – esaltarla: è qualcosa che nel dibattito politico pubblico non possiamo permettere che succeda. Quindi, o si decide di non far partecipare utenti politici a questa arena o si stilano delle regole chiare che, di certo, non possono sottostare a dei termini di uso e servizio che continuano a cambiare e, cosa ancora più grave, che non sono argomento del dibattito pubblico.

Per concludere questa analisi, lasciamo il caso Trump e prendiamo come esempio il massacro del popolo Rohingya o di qualsiasi altra etnia finita nel mirino di un governo. Dobbiamo credere alle notizie ufficiali che dicono che quel massacro non è mai avvenuto? Ci sono momenti storici in cui è estremamente complesso capire chi ha ragione. Pensate cosa accadrebbe se a decidere cosa è «verità» fosse un social network, oggi gli unici e veri organismi sovranazionali.

E, soprattutto, ricordiamoci sempre che ogni volta che chiamiamo qualcuno «terrorista», nello stato di appartenenza c’è chi lo chiama «combattente per la libertà».

*questo testo è tratto dal seguente video pubblicato sul canale Youtube di Matteo Flora: https://www.youtube.com/watch?v=ToifWXDAlQw
NOTE

[i] K.Grewal, «Twitter is working on new feature to flag fake news shared by ‘politicians, public figures’», The Print, 21/02/2020,

bit.ly/2XLuPfM

[ii] H.Lybrand e T.Subramaniam, «Fact-checking Trump’s recent claims that mail-in voting is rife with fraud», CNN, 29/05/2020, cnn.it/3eClC07

[iii] J. Koseff, «The Twenty-Six Words That Created the Internet», Cornell University Press, 2019, New York

[iv] O.Darcy, «White House creates tool for people to report alleged social media bias», CNN Business, 16/05/2019, cnn.it/2AB2LUi

(11 giugno 2020)






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