Tunisia: tra critica all’establishment e rischi di un autunno islamista
Leila Hannachi
Al primo turno delle elezioni presidenziali in Tunisia i più votati sono stati due outsider. Un chiaro segnale da parte dei tunisini, che hanno voluto punire una classe dirigente che non è stata all’altezza delle sfide della Rivoluzione. Il rischio però è quello di cedere alle sirene islamiste.
Da sempre la stabilità del Nord Africa è una questione cruciale per l’Europa e in particolar modo per l’Italia, non solo per la questione migratoria ma anche per gli interessi economici che legano i paesi delle rive nord e sud del Mediterraneo, tra cui quelli relativi alla sicurezza energetica. Infatti, se l’Italia è il secondo partner economico della Tunisia, l’Algeria, dopo la Russia, tramite il gasdotto che attraversa il territorio tunisino, fornisce importanti quantità di gas all’Italia.
Quindi, i moti della cosiddetta Primavera araba non potevano che scatenare diverse preoccupazioni nei partner europei, così come negli arabi per i quali oggi – nel caso dei tunisini – il rischio di un autunno islamista non sembra essere scampato, e per i quali molti dei motivi che hanno scatenato la Rivoluzione della Dignità sono gli stessi che continuano a seminare insoddisfazione e delusione e che hanno di fatto causato un terremoto politico, anticipato dalla morte di Béji Caïd Essebsi lo scorso 25 luglio, il primo presidente tunisino eletto con elezioni libere.
Malgrado al primo turno delle presidenziali, svoltesi lo scorso 15 settembre, il 49% dei cittadini non abbia votato, sembra che la rivoluzione si sia spostata dalle piazze alle urne. Al primo turno infatti sono emersi come protagonisti due outsider della politica, due uomini molto diversi fra loro ma che hanno in comune la non appartenenza a nessun partito. Il primo votato, con una percentuale del 18,4%, è Kais Saied, professore universitario, giurista, specialista in diritto costituzionale, conservatore sul fronte dei diritti civili, favorevole alla pena di morte, sostenuto anche dagli islamisti. Con il 15,4% segue Nabil Karoui, uomo d’affari, sensibile alle richieste dei più bisognosi, specialista nell’ambito della comunicazione, proprietario di una rete televisiva che usa per fare propaganda e grazie a cui gode di una grande popolarità e che, accusato di frode fiscale e riciclaggio di denaro, si trova attualmente in prigione.
Dunque, l’esito di queste elezioni anticipate non è che un chiaro messaggio che i tunisini stanno lanciando alla vecchia classe politica. Infatti, benché il presidente non legiferi e non governi, la scelta del capo dello Stato assume un’importanza simbolica notevole: i tunisini hanno perso la fiducia e punito di fatto un establishment che non è stato all’altezza delle sfide della Rivoluzione e che non ha saputo rispondere ai bisogni dei cittadini, stanchi di dover fare i conti con la disoccupazione, il caro vita e le incertezze per il proprio futuro. Le speranze adesso vengono riposte in questi due personaggi per molti versi controversi e per i quali i tunisini saranno chiamati ad esprimere la loro preferenza il 13 ottobre prossimo.
Ma non c’è solo la Tunisia. Il destino politico, economico e sociale del Nord Africa e dei rapporti tra questo e l’Italia al momento dipende anche dall’Algeria e dalla Libia. Da febbraio di quest’anno la prima oscilla pericolosamente tra la deriva autoritaria, il potere islamista e le aspirazioni di un popolo che rivendica la democrazia e che non ne può più del potere politico, economico e militare che governa il paese da decenni. Nelle piazze in cui oggi si manifesta, gli algerini chiedono le dimissioni del capo di Stato maggiore dell’Esercito, Ahmed Gaid Salah, e una vera autonomia dell’Istanza elettorale indipendente dal passato regime, di cui Abdelaziz Bouteflika, presidente dalla fine degli anni Novanta dimessosi lo scorso aprile, ne è stato il più noto rappresentante.
Anche la situazione libica è funesta per tutta la regione, per chi ci vive e per chi vi transita. Tra le tante, la questione più urgente è sicuramente quella della stabilità del paese. La settimana scorsa Fayez As-Serraj, il premier del Governo di Unità Nazionale, ha denunciato, davanti all’Assemblea Generale dell’Onu, le ingerenze di Francia, Egitto e Emirati Arabi. Se finisse la guerra, anche questo paese potrebbe essere un ottimo partner economico e non solo per l’Italia, e affinché questo possa accadere le parti in conflitto dovrebbero cessare il fuoco mentre gli altri paesi dovrebbero rispettare l’embargo delle armi per poi creare le condizioni per pacificare i libici di tutto il territorio.
A distanza di anni dalla prima Rivoluzione della Primavera araba, iniziata con l’immolazione del giovane tunisino di quel fatidico 17 dicembre 2010 e che ha avuto un impatto considerevole su diversi paesi, soltanto la Tunisia è diventata un paese democratico con una costituzione laica, ma bisognerà aspettare i prossimi avvenimenti per capire se si tratterà di una rigogliosa primavera o di un arido autunno, e se i venti che soffiano nel territorio tunisino potranno ancora una volta arrivare anche nei paesi vicini. Ciò che è certo è che l’evolversi delle situazioni nazionali degli Stati della regione avranno degli effetti anche sugli interessi economici e politici dell’Europa.
(3 ottobre 2019)
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