Turbocapitalismo senza spirito né cultura
Pierfranco Pellizzetti
«Nell’esame dei rapporti tra l’etica del primo
Protestantesimo e lo sviluppo dello spirito
capitalistico, noi prendiamo come punto di
partenza le nuove creazioni di Calvino,
del Calvinismo e della altre sette puritane»[1].
Max Weber
«Una frattura: fra le aspirazioni contrastanti di
una borghesia bramosa di armonizzare la sua
azione con la fede, e le soluzioni che le proponeva
una Chiesa anacronistica»[2].
Lucien Febvre
Luc Boltanski, Ève Chiappello, Il nuovo spirito del Capitalismo, Mimesis, Milano/Udine 2014
Richard Sennet, La cultura del nuovo Capitalismo, il Mulino, Bologna 2006
Sulle origini intellettuali dei Capitalismi
È nato prima l’uovo o la gallina? L’annosa questione del “prologo in cielo” capitalistico, se antropologia ascetica di derivazione religiosa (Weber) o – viceversa – adozione da parte dei ceti emergenti di una particolare dottrina in quanto accreditativa dei loro interessi concreti (Febvre), ritorna in maniera ricorrente; ora aggiornandosi nella riflessione sul nucleo concettuale – vuoi “spirito”, vuoi “cultura” – immanente rispetto all’attuale ordine socio-economico. Ultima manifestazione nel polimorfismo plurisecolare di una “vita materiale” che, articolatasi in “vita economica”, è sfociata storicamente nella società monetaria e di mercato che denominiamo grazie a un termine “ingombrante” quale Capitalismo[3].
Differente la vicenda editoriale dei due testi da cui stanno si prendendo le mosse, che affrontano entrambi la questione “novistica” riferita al classico soggetto, evocato per la prima volta da Werner Sombart nella sua opera Der moderne Kapitalismus (1902, in effetti Marx ha sempre preferito riferirsi al “modo di produzione capitalista”): lo stringato saggio di Sennet viene pubblicato in Italia nel 2006, l’anno stesso della sua uscita nel mercato anglosassone, il ponderoso tomo di Boltanski e Chiappello esce in Francia per Gallimard sette anni prima, ma è disponibile in italiano solo nel 2014.
Soprattutto saltano subito agli occhi le differenti metodologie d’approccio al tema: se il sociologo del MIT e della London School ricorre all’abituale tecnica di partire da vicende biografiche individuali per giungere a considerazioni generali (già sperimentata nel suo L’uomo flessibile del 2001), i ricercatori dell’École des hautes études en sciences sociales di Parigi battono la via – a dir poco singolare – di dedurre lo spirito del capitalismo dalle letteratura manageriale del tempo (B&C pag. 159); senza tenere conto della natura altamente sospetta di questa pubblicistica di matrice consulenziale, fortemente influenzata dal rapporto subalterno degli autori – appunto, consulenti aziendali – con la propria committenza (titolari, boss e top manager).
Comunque sia, Sennet si concentra sull’esaurimento di quella stagione che chiama di “Capitalismo sociale” (altri parlavano di “patto keynesiano-fordista” e altri ancora di “Capitalismo amministrato”), con i suoi portati di certezze rassicuranti e inclusive; a seguito dell’affermarsi di una globalizzazione finanziaria alimentata dall’enorme surplus di capitali per investimenti su scala mondiale liberati già alla fine degli anni Settanta nel (dis)ordine post Bretton Woods: «in questo modo il sociale è stato ridotto; rimane il capitalismo. La disuguaglianza è sempre legata all’isolamento. Proprio questa trasformazione è assunta dai politici come modello per le loro ‘riforme’ nell’ambito pubblico» (S pag. 61).
La lunga riflessione dei philosophes parigini, entrambi “bourdivins” (seguaci di Pierre Bourdieu, il grande maestro di anticonformismo scomparso nel 2002), parte dalla riscoperta di un soggetto che nel 1995, «a eccezione di una manciata di marxisti», la cultura sociologica francese supponeva in via di estinzione (tema di cui si discuterà in conclusione, seppure in una logica assai diversa). Il ritorno in campo del comando tecnocratico-imprenditoriale (appunto, termine che oggi preferisco a “Capitalismo”) argomentato sovente con un compiaciuto ricorso alla retorica dell’astruso, molto rive gauche. Si prenda ad esempio questo passaggio ad alto tasso d’ermetismo, nonostante riguardi un aspetto decisivo nel tema in questione: «si assiste oggi a uno sconcertante, e al tempo comprensibile duplice convergere di autori sedotti dalla proliferazione e dall’inventiva dei dispositivi tecnologici che si stanno diffondendo sotto i nostri occhi (in altre parole sedotti dal rinnovamento del capitalismo) e insieme di autori che si propongono di rilanciare, su nuove basi teoriche, l’azione rivoluzionaria contro il capitalismo» (B&C pag. 35).
Cosa si dice in questo “faticoso” passaggio? Qualcosa di molto importante, seppure calato in coordinate temporali discutibili. Cioè il ruolo svolto dall’innovazione (aggiungo, non solo tecnologica ma anche organizzativa: l’adozione del container che stronca la resistenza operaia nei porti con i suoi effetti gestionali ammazza-lavoro e crea le condizioni del nuovo modo di produrre a rete, risale agli anni Cinquanta del secolo scorso) per spazzare via ogni controparte che contrappesi le strategie di ristrutturazione. Un processo che solo la fantasiosa superficialità nel denunciare cospirazioni, da habitués di Saint Germain, può considerare opera intenzionale di un’occulta Spectre del comando d’impresa. Quando tale sommovimento controrivoluzionario è il palese risultato di singole tattiche, scollegate tra loro, seppure rispondenti a una comune logica, che sovrapponendosi creavano per accumulo un vero e proprio Moloch sterminatore: il reenginering labor saving, ossia eliminare addetti per sgravarsi dai vincoli prodotti dal fattore umano sul posto di lavoro. Repulisti in forma di fenomeno pluviale, dunque non programmato (una sorta di zeitgeist padronale), in cui i mille rivoli sono andati a confluire nel pozzo senza fondo della precarizzazione/disoccupazione. Percepito dalla critica alla fine del millennio, quando i metaforici buoi erano già scappati. Da quel dì.
Sempre nel lessico sull’astruso del duo B&C: «le nuove pratiche organizzative, che si presentano come un’accumulazione di piccole evoluzioni e piccoli cambiamenti, hanno avuto l’effetto di svuotare, pur senza abrogarle, un gran numero di disposizioni del diritto del lavoro» (pag. 280).
Semmai, è davvero singolare che il pensiero sociologico d’oltralpe avesse tardato tanto a rendersene conto: il primo decentramento transnazionale a Oriente è probabilmente quello della Fairchild a Hong Kong e risale al 1962, ben prima del tempo zero dell’ICT e del just-in-time della rivoluzione logistica; il lavoro sporco nella cancellazione del lavoro organizzato come primario soggetto politico aveva già raggiunto l’acme nella mattanza di minatori e dei loro sindacalisti comandata da Margareth Thatcher in quella che è passata alle cronache come “la battaglia di Orgreave” nello Yorkshire del Sud, il 18 luglio 1984.
Perciò si potrebbe dire che se l’assetto socio-economico di cui parliamo ha uno “spirito”, questo sembra essere la ferocia applicata alle contingenze; mentre, quanto concerne la sua “cultura” – intesa come “rete di significati” per tenere assieme gli individui nel frammentarsi delle istituzioni welfariane e del modello di fabbrica radicata nel territorio – questa si traduce nella giustificazione propagandistica della corsa all’enrichissez-vous, che pretende di definirsi “pragmatismo”. Con le parole di Boltanski e Chiappello, «alla valorizzazione dell’idea di sicurezza si sostituisce allora l’apologia del
cambiamento, del rischio e della mobilità» (B&C pag. 151).
Per dirla tutta, l’assiomatica dell’interesse avido, che diventa un macroscopico diffusore di precarietà e ineguaglianze per chi non ha accesso al quartier generale del comando. Solo imbellettatura a posteriori di spiriti animali. E apparato argomentativo per certificare la naturalità/legittimità di tale assiomatica.
Il lascito Sessantottardo
Se negli ultimi quarant’anni siamo stati invasi dalla tracotanza spregiatrice del demos fattasi spirito e cultura, il suo avvento è proceduto pari passo con lo smantellamento delle difese regolative a protezione della democrazia inclusiva. Ossia le strutture regolative dello Stato Sociale. Operazione che richiese una duplice manovra linguistica: delegittimare l’ordine instaurato nei precedenti trent’anni (che di per sé già stava perdendo spinta propulsiva per involuzione burocratica); convincere l’area mediana della società, principale beneficiaria del Welfare State, che il suo interesse rettamente inteso era arruolarsi in una guerra di liberazione dalle tutele per realizzare lo Stato minimo, la de-regolazione. L’eterna strategia delle élite di virare l’energia delle classi subalterne a proprio vantaggio; l’abile opera di depistaggio ottenuto mediante la rappresentazione truffaldina delle posizioni contrapposte nel campo degli interessi.
Obiettivo che aveva necessità di adeguati armamentari concettuali e speaker efficaci. Entrambi reclutati, in una sorta di singolare convergenza di opposti, nell’area della militanza estrema contro gli aspetti liberticidi del comando plutocratico: la Nuova Sinistra, che alla fine degli anni Sessanta dominava non solo piazze e aule della didattica, ma anche gli immaginari mediatici. Accordo che – sorprendentemente (?) – richiese passi minimi, quanto le poche lettere che separano “libertario” da “liberista”.
Sicché Boltanski e Chiappello si chiedevano «perché molti ‘sessantottini’ si siano trovati a loro agio nella nuova società al punto di farsene portavoce e di sostenere questa trasformazione» (B&C pag. 50). Gli faceva eco il vecchio militante radicale Sennet, confessando la triste fine di giovanili speranze: «i contestatori dei miei tempi credevano che smantellando le istituzioni si potessero produrre delle comunità: relazioni faccia a faccia di fiducia e solidarietà, […] Indubbiamente, questo non è avvenuto» (S pag. 7). E per capirne la ragione dobbiamo rivolgerci al più acuto storico del dopoguerra, Tony Judt: «in quegli anni, essere di sinistra, essere radicali, voleva dire essere egocentrici, preoccupati solo di promuovere se stessi. […] Le rabbiose contestazioni proletarie contro i capitalisti sfruttatori cedettero il passo a slogan spensierati e ironici che chiedevano libertà sessuale»[4]. Sicché – prosegue Judt – «il compito della rinascente destra fu reso più facile dal tempo trascorso […] ma anche dagli avversari. Il narcisismo dei movimenti studenteschi, i nuovi ideologi della sinistra e la cultura popolare della generazione degli anni Settanta crearono le condizioni per una reazione conservatrice»[5].
Avversari della Destra rinascente, costoro? Alla luce delle succitate considerazioni, converrebbe riconsiderare tanta narrazione di maniera sul Joli Mai, l’anno degli studenti e dintorni, e relative epopee. La presunta rivoluzione ridotta ad arsenale argomentativo e campo di arruolamento della controrivoluzione per eccesso di individualismo iomaniaco. L’esplosione di vitalismo di una coorte generazionale di estrazione medio/piccolo borghese, che interpretava come “nuovo inizio” ciò che era soltanto la fine di un’epoca: il blocco degli ascensori sociali e la proletarizzazione imminente del lavoro intellettuale; dei knowledge workers. Allo stesso modo degli operaisti dell’epoca, che interpretavano l’antagonismo dell’operaio-massa come una rottura rivoluzionaria dell’ordine proprietario (e Toni Negri insiste nel continuare a farlo, ricollocando le sue fumisterie in un contesto post-industriale fantasy: «tutta la forza lavoro, materiale o immateriale, intellettuale o manuale, è impegnata nelle lotte intorno al linguaggio, contro la colonizzazione capitalistica della socialità comunicativa»[6]).
Quanto si poteva leggere in filigrana negli interventi di molti “reduci”, ospitati nel numero doppio di MicroMega, dedicato appunto al Sessantotto, che ha inaugurato l’annata 2018 della rivista: la ricerca nostalgica del fantasma della propria giovinezza, che nella memoria (ingannatrice) assume colori e profili favolosi. Come quelle ragazze bellissime, accessibili e disponibili, frequentate durante le occupazioni studentesche, il cui flashback continua a turbare cuori carichi di antichi rimpianti. Quando – nel ricordo di chi scrive – le fanciulle militanti, infagottate in orride gonne alla caviglia tipo Joan Baez, si segnalavano per sciatteria e scarsa cura del corpo come ostentazioni antiborghesi; per non parlare dello sguardo con cui squadravano i loro sbulinati e irsuti compagni del Movimento, forse intuendoli futuri funzionari di partito, bancari o consulenti di comunicazione.
Fatto sta, se un detto proclama “lo scettico come metafisico deluso”, quella fu una stagione in cui l’individualismo narcisistico sfociò in qualcosa di peggio: un cinismo sprezzante, spesso argomentato nei termini del nicianesimo d’accatto allora di moda (i rapporti di forza come unico criterio di giudizio politico; il relativismo etico a fronte di una realtà ridotta a semplice interpretazione). Intanto questo personale, spesso fulminato sulla via di una Damasco opportunistica/carrieristica, si predisponeva a riciclarsi sotto le bandiere delle Terze Vie blairiane-clintoniane: la migrazione nelle tende dei vincitori del tempo offrendosi come caporalato del consenso. La secessione che altrove diffondeva frustrazione e un clima di sfiducia. Come ci spiegano i nostri due nuovi amici dell’École des hautes études parigina.
Intanto, alla faccia di tutti gli strateghi del riposizionamento personale, i laboratori e i think tanks sotterranei della reazione, al sevizio dell’ordine padronale, preparavano le condizioni per l’annientamento degli antagonisti e il ripristino dell’egemonia retroversa.
Proprio per il disarmo unilaterale di un pensiero sulla trasformazione, ormai disallineato, «le uniche risorse critiche a cui si poteva fare appello erano state istituite per denunciare il tipo di società che aveva raggiunto il proprio apogeo a cavallo tra gli anni sessanta e settanta». Sicché, «se nel breve periodo il capitalismo se ne è addirittura avvantaggiato, […] in realtà potrebbe anche essere avviato verso una di quelle crisi potenzialmente mortali che si è già trovato ad affrontare» (B&C pag. 58).
Ma a rischiare l’ennesima crisi “mortale” è ora il Capitalismo o qualcos’altro?
Capitalismo o Plutocrazia?
Diceva Giovanni Arrighi: «ciò che rende capitalistico un agente o uno strato sociale non è la sua propensione a investire in una particolare merce (per esempio la forza-lavoro) o sfera di attività (per esempio l’industria). Un agente è capitalistico in virtù del fatto che il suo denaro è dotato, sistematicamente e costantemente, della facoltà di procreare (l’espressione è di Marx), indipendentemente dalle specifiche merci e attività che ne costituiscono incidentalmente lo strumento»[7]. La ricchezza che ha imparato a riprodursi sulla filiera investimento-profitto.
L’assetto che abbiamo chiamato “capitalistico” come essenza dell’organizzazione sociale ed economica della Modernit&ag
rave; per oltre l’ultimo mezzo millennio. Ma che ora subisce gli effetti di una discontinuità sistemica senza rimedio: l’esaurirsi della capacità regolativa dello Stato-nazione, che aveva favorito il succedersi delle fasi economiche e delle relative centralità attutendo i contraccolpi della transizione; l’assenza di nuovi motori della crescita, come riferimento privilegiato del succitato meccanismo a due tempi investimento-profitto (nella sequenza: il tessile settecentesco, la siderurgia ottocentesca, la chimica novecentesca fino ad arrivare all’area distribuzione-consumo, desertificata, drogaggi a parte, dalla raggiunta maturità dei mercati in cui oggi – al massimo – prevale il rimpiazzo; e dalla decimazione del primo attore nell’atto d’acquisto: il ceto medio); nel graduale esaurirsi della spinta innovativa di prodotto/processo, solo parzialmente sostituita dalle escogitazioni dei tecno-maghi al silicio, dei vari Steve Jobs, denominate in anglo-managerialese “packaging, restyling, setting, marketing”.
Da qui il dubbio: cosa succede quando la ricchezza disimpara a riprodursi e persegue l’espansione attraverso l’accaparramento? Quando il capitalismo industriale cede il posto a questo tipo di finanza, in cui i protagonisti del gioco economico non sono più le imprese industriali bensì le banche e gli altri manipolatori del denaro (altrui), che accumulano e creano una continua domanda di ulteriore accumulazione operando su archi temporali che possono scendere al nanosecondo? In cui si intercetta ricchezza sempre meno attraverso il profitto industriale e sempre di più mediante le rendite e la concentrazione monopolistica. In primo luogo presidiando varchi attraverso i quali sono obbligati a transitare flussi materiali e immateriali, versando i relativi balzelli.
L’epopea di Arpagone o – al massimo – di Ghino di Tacco, non certo di Henry Ford.
Ma qui siamo. E Paolo Leon, keynesiano di sinistra, osserva al riguardo che «la crisi recente non è parte di un ciclo che si ripete di tanto in tanto, ma una rottura di continuità nelle strutture del capitalismo»[8]. Se così è – ci si chiede – dobbiamo perseverare nell’uso di un lessico che si riferiva a fasi dinamiche ormai in esaurimento, o non sarebbe più corretto prendere atto che ci troviamo in una situazione tendenzialmente statica, analoga alle stagnazioni che precedettero per secoli e secoli le accelerazioni rivoluzionarie scaturite agli albori del Moderno insieme alle figure emergenti del bürger e del citoyen; denominare questo ritorno al passato con il suo antico nome di “Plutocrazia”? La ricchezza economicamente inerte che si promuove attraverso i giochi dello scambio politico.
Abbandonando a questo punto i nostri compagni di strada anglo-americani e parigini, uno spartiacque sociale ed economico che si era vagamente percepito nella nostra Italietta nella prima metà degli anni Settanta del secolo scorso. Quando in circoscritti ambienti liberal-democratici si ipotizzava una via d’uscita dalla già percepibile involuzione della società nazionale attraverso l’ipotesi laborista: quella “Alleanza dei produttori” che sintetizzava il proprio messaggio nella parola d’ordine “profitto e salario contro la rendita”. Il cui unico e pure caduco frutto di stagione fu l’accordo sul puto unico di contingenza, che metteva al riparo dalla crescente inflazione le retribuzioni dei lavoratori dipendenti, a fronte della garanzia di moderazione salariale e di maggiore flessibilità del lavoro; effetto dell’accordo tra il sindacato, con in testa la CGIL di Luciano Lama, e la Confindustria presieduta da Gianni Agnelli (1974-1976). Cui fece seguito la cosiddetta “svolta dell’EUR” (1978), che promuoveva una politica di sacrifici per affrontare la crisi economica, in base alla tesi in contro-tendenza che il salario non rappresentava più una variabile indipendente.
Ma tutto finì lì e il padronato presto rientrò nei ranghi del privilegio, accantonando ogni velleità riformistica “da convegno”.
Intanto si avvicinavano gli anni e gli sfracelli sociali descritti dai libri oggetto della nostra rilettura. Mentre il “nuovo Capitalismo” di cui parlano subiva una trasformazione così profonda e radicale da indurre il motivato sospetto che sia diventato un qualcosa di profondamente diverso (e di antico). Che meriterebbe di essere approfondito alla luce di categorie non solo rinnovate ma effettivamente in grado di comprendere la mutazione genetica plutocratica. In cui sempre meno il possessore del denaro, scendendo dalla sfera rumorosa del mercato, penetra nel segreto laboratorio della produzione dove incontra il possessore di forza-lavoro, sempre di più sale al piano superiore per intrattenere lucrosi affari con il possessore del potere politico[9].
Per comprendere una tale trasformazione occorrerebbe quella “saggezza nuova” che John Maynard Keynes auspicava già nel 1925: «metà della scolastica saggezza della nostra classe dirigente si basa su assunti che un tempo erano veri – o parzialmente veri – ma che lo sono sempre meno ogni giorno che passa. Dobbiamo inventare una saggezza nuova per una nuova era. E nel frattempo, se vogliamo fare qualcosa di buono, dobbiamo apparire eterodossi, problematici, pericolosi e disobbedienti agli occhi dei nostri progenitori»[10].
In attesa di una tale saggezza eterodossa, valga il commento dell’economista Emiliano Brancaccio: «il solo fatto che Keynes venga nuovamente menzionato nell’agorà politica appare a molti un segnale minaccioso, un potenziale incentivo all’eversione del precario ordine finanziario costituito»[11].
NOTE
[1] M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni, Firenze 1965 pag. 160
[2] L. Febvre, Studi su Riforma e Rinascimento, Einaudi, Torino 1976 pag. 41
[3] F. Braudel, Capitalismo e civiltà materiale, Einaudi, Torino 1977 pag. XIX
[4] T. Judt, Guasto è il mondo, Laterza, Roma/Bari pag. 67
[5] Ivi pag. 70
[6] M. Hardt e A. Negri, Impero, Rizzoli, Milano 2002 pag. 373
[7] G. Arrighi, Il lungo XX secolo, il Saggiatore, Milano 2010 1996 pag. 26
[8] P. Leon, Il Capitalismo e lo Stato, Castelvecchi, Roma 2014 pag. 17
[9] G. Arrighi, Il lungo XX, cit. pag. 47
[10] J. M. Keynes, Sono un liberale? Adelphi, Milano 2010 pag. 171
[11] E. Brancaccio, “La rivoluzione da Mosca a Cambridge”, in J. M. Keynes, Esortazioni e profezie, il Saggiatore, Milano 2017 pag. 9
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