Un progetto per il turismo, un progetto per la città
Tomaso Montanari
Quale turismo? È questa la domanda che dovremmo farci per rilanciare le città, colpite dal crollo verticale dei visitatori dovuto alla Covid. A questo tema è dedicato il saggio “Governare il turismo, riprogettare le città” di Tomaso Montanari pubblicato . Ne pubblichiamo un estratto*.
*Estratto di circa 7mila battute su un totale di 24mila del saggio contenuto .
Parafrasando Danilo Dolci, si potrebbe dire che il problema non è turismo sì o turismo no: ma quale turismo «e chi si prende i soldi». Prendiamo il caso clamoroso della mia città, Firenze. Qui il crollo verticale del turismo dovuto alla Covid ha messo in ginocchio un bilancio comunale scelleratamente basato sulla tassa di soggiorno. Mentre il sindaco Dario Nardella giura di voler cambiare finalmente modello, la sua amministrazione approva la trasformazione dell’ex ospedale militare in Costa San Giorgio (nel luogo più pregiato del centro storico) in resort di lusso (1° giugno 2020).
Gli ultimi dati disponibili circa il mercato degli alloggi nel centro di Firenze dimostrano che circa il 90 per cento dei passaggi di proprietà preludono all’apertura di attività ricettive[i]. Ogni anno mille fiorentini abbandonano la residenza in centro storico: e su oltre 10 milioni di turisti presenti ogni anno, almeno due milioni dormono in case private trasformate, più o meno legalmente, in alberghi di fatto. Perciò ci dovremmo decidere. Se vogliamo continuare a vivere di rendita con la Firenze-location, con il sindaco che interpreta una guida turistica nel film che noleggia per due euro la città come sfondo e l’ex sindaco (ed ex tutto) che le dedica un «documentario»[ii]: beh, allora non possiamo lamentarci della fine che stiamo facendo.
Forse potremmo, però, imboccare una strada diversa, che non vorrebbe certo dire rinunciare al turismo, ma provare a governarlo. Firenze ha lo stesso problema che ha l’Italia. Tutto il flusso turistico si concentra in pochissimi luoghi, che vengono usurati fino alla morte, civile e materiale. Nessuno visita Padova e Vicenza: mentre Venezia letteralmente muore di turismo. Ma anche Pompei si sgretola sotto le ondate di visitatori delle domeniche gratuite (che hanno portato al paradosso del numero chiuso): mentre nessuno va a vedersi, che so io, la spettacolare Baia.
A Firenze accade lo stesso: a pochi passi dall’Accademia, nessuno varca la soglia del Bargello, sempre vuoto, con i suoi quattro Michelangeli e con il suo fiume di spettacolare scultura rinascimentale. E mentre gli Uffizi e Piazza della Signoria si disfano, le sale della Galleria Palatina di Pitti (colme di capolavori degli stessi maestri) sono sempre – meravigliosa mente, ma assurdamente – deserte. Per non parlare del sommo Museo di Orsanmichele, di Santo Spirito, della Santissima Annunziata, di Santa Felicita. Si potrebbe continuare a lungo: raccontando una Firenze vuota, a tratti spettrale.
Provare a governare il turismo vorrebbe dire iniziare a differenziare e ad ampliare ciò che le agenzie vendono ai turisti: riempiendo le piazze, le chiese e i musei vuoti, svuotando un poco quegli stracolmi.
Ma accanto al governo del turismo, ci vuole un progetto di città. Se continuiamo a svuotare di funzioni la città storica (come ha fatto per esempio l’università, con una serie di drammatici errori), se continuiamo a trasformarne i palazzi pubblici in alberghi, se invece di avere un progetto ci affidiamo a concorsi estemporanei, se continuiamo a creare le condizioni perché i residenti vengano espulsi, la città storica sarà sempre di più solo una location in balìa di chi «paga il biglietto». Mentre l’unica vera difesa dagli eccessi del turismo non è rappresentata né dal numero chiuso, né dalle cancellate intorno ai monumenti: ma da una città viva i cui vivi abitanti siano insieme anima e presidio dei luoghi. La polis è il prodotto della politica: e forse è proprio questo il nostro vero problema.
La morte della città, infatti, non si ferma con misure estemporanee dal sapore poliziesco e propagandistico (come l’idea dei tornelli all’ingresso di Venezia), ma solo tornando a governarla, tornando a dire e a pensare la cosa più ovvia, e insieme più negata e più rivoluzionaria: una città è una città. Non una location, non un grande resort o una colossale seconda casa per ricchi, non lo sfondo per le micidiali Grandi Navi. Non tutto questo, ma una città. Il problema di Venezia, per esempio, non si risolve se si parte dai numeri in entrata (i turisti): bisogna cambiare quelli in uscita (i residenti). Al tempo di Tiziano la città, delle stesse dimensioni di quella di oggi, aveva quasi 170 mila abitanti: oggi non si arriva a 50 mila. Questo è il problema. E la soluzione è invertire la rotta delle politiche che hanno causato questo esodo di massa. Tornare a governare i prezzi del mercato immobiliare, il proliferare di strutture ricettive, reimpiantare i servizi necessari a chi ci vive ogni giorno, fare manutenzione della città. Bisogna far «convivere insieme il monumento artistico e la bottega artigiana, il palazzo del ricco e le case di chi in quei quartieri è nato e vive, la festa popolare e la festa d’arte con i suoi ospiti e i turisti che le fanno corona. Si tratta d’una politica attenta, dimensionata sui contesti specifici, differenziata luogo per luogo, quartiere per quartiere; accettabile e comprensibile in primo luogo dalle singole comunità, da coloro infine che sono i soli depositari dell’identità storica e umana dei luoghi». Sono parole di Eugenio Scalfari, scritte in un illuminato articolo del 1989 che denunciava, all’indomani del distruttivo concerto dei Pink Floyd, «l’uso scellerato che una classe politica inetta e incolta fa di Venezia in particolare e delle città d’arte italiane in generale»[iii].
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Colpisce che chi, trent’anni dopo, è convocato dal governo per «innovare» l’Italia non abbia coscienza di tutto questo, e parimenti ignori ciò che davvero ha prodotto di nuovo l’Italia stessa negli ultimi decenni. Pensiamo a un modello come quello della filosofia Slow Food, per esempio. Carlo Petrini ha raccontato più volte l’aspirazione «contestuale» di Slow Food: non «la gastronomia nelle asettiche cucine di lusso delle città», ma la frequentazione dei contadini, degli osti e dei vignaioli «a casa loro». Bisognava attuare l’idea di Luigi Veronelli, che parlava di «camminare le osterie», «camminare le cantine»: e da lì «camminare la terra», «camminare le campagne». Insomma: «bisognava rompere la gabbia», e riconquistare il nesso essenziale con la salubrità di aria, terra, acqua, con la memoria e la storia, con la salvaguardia del paesaggio. Non sono parole e valori ignoti alla tradizione della storia dell’arte: anzi, le appartengono da sempre. Ma oggi dobbiamo avere l’umiltà di reimpararli da chi ha saputo parlare al nostro tempo. Perché c’è urgente bisogno di «rompere la gabbia» delle poche mete coatte, e di ricominciare a «camminare il territorio» dell’intero paese. Come farlo, in concreto? Per esempio, adottando il paradigma del «chilometro zero»: un turismo di prossimità del quale, nel piano Colao, non c’è nemmeno il sentore.
Non me ne stupisco. Nessuno di noi è stato educato a guardarsi intorno, a considerare il rapporto con l’arte del passato un fatto quotidiano. Per farlo bisogna costruire e condividere un modello sostenibile di rapporto con il contesto che abitiamo: con lo spazio pubblico monumentale, che è il vero capolavoro della storia dell’arte italiana.
(11 agosto 2020)
[i] «Investire nel mattone? Sì, ma dove?», Tecnocasa Group News, 4/4/2018, bit.ly/2AN2RZC.
[ii] Dario Nardella, sindaco di Firenze, compare nei panni di una guida turistica nel film Inferno di Ron Howard, girato nel capoluogo toscano; Matteo Renzi, ex sindaco di Firenze, ha realizzato il documentario Firenze secondo me andato in onda su Nove, n.d.r.
[iii] E. Scalfari, «I vandali in comune», la Repubblica, 18/7/1989, bit.ly/2N6QtWI.
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