Turisti che odiano i turisti

Corinne Lucas Fiorato

Come è successo che in un paio di secoli un’attività che si intraprendeva solo quando si era costretti e solo con grandi precauzioni, e dopo molte esitazioni, cioè il viaggiare, sia divenuta il modo di esistenza che caratterizza la modernità? Con il suo ultimo libro,“Il selfie del mondo”, Marco d’Eramo ci offre un’indagine sull’industria del turismo – che distrugge immense risorse materiali per sfruttare beni immateriali quali un paesaggio, un’aurora boreale, un’alba sul Machu Picchu – che è anche occasione per affrontare il tema dell’Altro: sia dei turisti come Altri da noi, sia del turismo come forma particolare di contatto con l’Altro.

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Il turismo pervade e penetra a tal punto la nostra vita di tutti i giorni che nei suoi confronti siamo afflitti da una tripla cecità, sembra dirci Marco d’Eramo nel suo libro “Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo” (Feltrinelli, pp. 254, €22,00). Innanzitutto l’ubiquità del turismo è tale che non ne cogliamo più la dimensione colossale. Le statistiche citate da d’Eramo sono impressionanti: nel mondo il turismo dà lavoro a 277 milioni di persone, in Spagna genera il 15% del prodotto interno lordo (in Italia il 10%), e nel 2015 si contavano 1,5 miliardi di turisti internazionali, cui andavano aggiunti i turisti nazionali, domestici, che sono molti di più. Ma oltre all’effetto diretto, bisogna mettere in conto l’a-monte e l’a-valle: quanti aerei in meno si fabbricherebbero a quante navi da crociera in meno si varerebbero senza turismo? “Il turismo alimenta poi una bella fetta di industria automobilistica, di edilizia (residenze secondarie, alberghi, villaggi turistici) e d costruzione stradale e autostradale (quindi, via via, di cementifici, di siderurgia, di industria metallurgica)”. Perciò, continua a ripeterci d’Eramo, il turismo è la più importante industria del tempo e del mondo, dove l’accento va posto sulla parola industria.

Un’industria sui generis perché mette in campo, smuove, usa, consuma, distrugge immense risorse materiali per sfruttare beni immateriali quali sono per esempio un paesaggio, un’aurora boreale, un’alba sul Machu Picchu. Addirittura, nelle cosiddette “città d’arte” il turismo è un’industria che pratica sistematicamente lo sfruttamento economico del passato, tanto che vestigia e monumenti vengono assimilati a risorse fossili, quando ministri e politici parlano di “sfruttare i giacimenti culturali”. S’instaura tutta un’economa dei patrimoni (heritages in inglese) certificati dall’Unesco, che d’Eramo studia in due capitoli sorprendenti per i legami che tessono fra conservazione urbanistica, conservazione politica e liberismo economico. Usando i testi di Françoise Choay, Krzysztof Pomian, David Lowenthal e molti altri, d’Eramo insiste sulla necessità di trovare un equilibrio tra innovare e preservare, e cioè di riequilibrare il nostro rapporto – non soltanto turistico – tra presente e passato.

Quanta arbitrarietà ci sia nelle planetarie premure istituzionali riguardo alla gestione del patrimonio mondiale del passato, risulta chiaro quando esaminiamo un’altra forma di mercificazione del Bello, quella del mercato delle opere d’arte, che l’Unesco non contesta. Eppure le cifre sono eloquenti: osserva d’Eramo che ben 92 paesi nel mondo hanno ciascuno un Prodotto interno lordo inferiore al fatturato totale del mercato privato delle opere d’arte e il singolo quadro più pagato fino al 2015 (di Paul Gauguin), corrisponde al reddito annuo di circa 60 mila lavoratori italiani.

La seconda cecità consiste nel non chiedersi come mai quella che all’inizio era una fisima di aristocratici, il viaggio per “diporto”, sia potuta divenire la più importante industria del mondo. Come è successo che in un paio di secoli un’attività che si intraprendeva solo quando si era costretti e solo con grandi precauzioni, e dopo molte esitazioni, cioè il viaggiare, sia divenuta il modo di esistenza che caratterizza la modernità? A tal punto che già nel 1844 un autore citato da d’Eramo affermava che “la nostra è l’età del viaggio”.

Tutta la prima parte del Selfie del mondo è dedicata a rispondere a questa domanda. Da discepolo del sociologo Pierre Bourdieu, d’Eramo ripercorre le rivoluzioni tecnologiche (dei trasporti e delle comunicazioni) e sociali che hanno creato questo stranissimo fenomeno planetario che è il turismo. Lo vede emergere nella cultura occidentale, negli scritti di Bacone, Diderot, Johnson, Stendhal, Mark Twain. In un primo tempo lo esamina in quanto oggetto guardato da lontano, in visione prospettica, attraverso i meccanismi dell’industria e dell’economia globale, in termini di gestione di spazio e di temporalità, il presente essendo da d’Eramo spesso confrontato storicamente al passato (in particolare al periodo dell’Illuminismo e all’Ottocento europeo).

Poi, man mano che leggiamo, ci avviciniamo a questo turista che è il vero e più paradossale oggetto della nostra cecità: tutti noi una volta o l’altra siamo turisti, ma ognuno di noi disprezza gli altri turisti. Il turismo diventa così un’attività comune a tutta la società, ma che nello stesso tempo la divide. Rispetto al turismo, siamo tutti dei Groucho Marx che non accetteremmo mai di iscriverci a un club in cui fossimo invitati.

Nella seconda parte del Selfie del mondo irrompe perciò il tema dell’Altro, sia dei turisti come Altri da noi, sia del turismo come forma particolare di contatto con l’Altro. Anzi, per d’Eramo, il turismo è la forma peculiare con cui la modernità ha patteggiato l’irruzione dell’Altro nella nostra vita, irruzione provocata dalle sconvolgenti rivoluzioni dei trasporti e delle comunicazioni degli ultimi due secoli, e dagli immani rimescolamenti umani che queste tecnologie hanno suscitato. In tre capitoli si fanno largo accezioni nuove e diverse del tanto deprecato termine di “alienazione”, fino a coglierne gli aspetti positivi: certo che il turista è alienato, ci dice d’Eramo, ma lo è volontariamente, in quanto si mette da solo in situazione di estraneità. Se il turista in quanto soggetto, cioè persona, esplora il pianeta anche in viaggio organizzato, visita e fa visitare ai figli musei e miti più che luoghi, perché disprezzarlo? Non è meglio che fare puzzle in casa? Lo svago, anche regolamentato, consente di aprirsi sull’esterno, di soddisfare il turista che l’autore guarda con simpatia, anche perché, contro tutti gli epiteti che si usano verso i turisti (d’Eramo fa notare che la metafora ovina del “gregge di turisti” fu coniata già nel 1872 da Gobineau, il teorico francese del razzismo), il turista non è una condizione immutabile, ma è uno stato transitorio, una situazione passeggera: ognuno è turista ad un dato momento e “sperimenta sia la situazione di visitatore sia quella d’indigeno”.

E il nostro turista conferma la sua esistenza di persona – e non di macchietta – quando, in uno degli ultimi capitoli del libro, lo vediamo porsi di front
e al cibo. Se il cibo è un elemento di discriminazione sociale (“Dimmi quel che mangi e ti dirò chi sei”, diceva Brillat-Savarin), tuttavia, scrive d’Eramo, per il turista il mangiare è “praticamente l’unica interazione che va oltre la dimensione puramente visiva e si fa carne, consistenza, l’atto di assaggiare i cibi [essendo] il modo principale per ‘degustare’ una cultura Altra”. Pagine succulente trattano la patrimonializzazione della gastronomia mondiale, con l’irruzione di tradizioni più o meno inventate, di messe in scena dell’autenticità, della tipicità, della cucina etnica, come “nuova forma di gastronomia globale”. Un’inventività senza fine nell’organizzare percorsi e sagre ed eventi per far conoscere mille sapori ‘autentici’, “veri e propri pellegrinaggi del gusto e dell’olfatto”. Sbalorditive sono le cifre di tali eventi che consentono di accedere alla ‘verità’ del gambero di fiume, degli gnocchi, della porchetta, del gorgonzola, in liste vertiginose alla Boris Vian.

Il procedimento di Marco d’Eramo consiste nello smontare paradossi, che dalle sue inchieste risultano in realtà soltanto apparenti, ragion per cui l’autore sorprende il lettore praticamente a ogni capitolo. Ma la vera svolta compositiva del saggio avviene alla fine, in un bel capitolo intitolato “Forse un giorno”, in cui il viaggio fino ad allora percorso dal lettore nell’età del turismo – e cioè nell’oggi – viene guardato da un futuro virtuale in cui vengono visti come vecchi reperti arcaici sia il nostro turista, sia tutti i dispositivi istituzionali, politici ed economici che rendevano possibile la sua esistenza; e appare superata la civiltà mondiale sviscerata fino allora nel libro.

Nel finale del libro, l’oggi è osservato da un alieno venuto da un altro pianeta e da un tempo futuro. D’Eramo cerca di spiegare perché l’età del turismo finirà per scomparire e procede non inventando un altro mondo, ma semplicemente seguendo fino in fondo i diversi aspetti della logica che ci governa oggi. Primo motivo della probabile scomparsa del turista di massa: la crisi terminale della società salariale – di cui parlava Robert Castel – che finora ha fissato gli spazi, i tempi e i ritmi delle nostre esistenze. Senza ferie retribuite e senza sistema pensionistico il turismo di massa sarebbe impossibile. Non per nulla, oggi, molte persone si mettono a viaggiare quando vanno in pensione. Il turismo dipende dalla scansione delle nostre vite tra tempo di lavoro e tempo libero creata dal salariato. Ma il lavoro salariato, il posto fisso, con ferie pagate, e pensione, sta scomparendo nell’età della flessibilità e del precariato. E se svanisce questa scansione della vita in tempo di lavoro e tempo libero, finirà anche il turismo di massa che ne è un effetto, un sottoprodotto.

Secondo motivo: lo spazio sarà sempre più multidimensionale. Questa multidimensionalità avvicina ciò che è lontano, ma può anche separare due persone sedute vicine perché uno telefona in India mentre l’altro con l’auricolare all’orecchio ascolta musica newyorkese. E le tecnologie nomadi, che già esistono, faranno sì che potrai “portarti appresso tutte le dimensioni supplementari, muovendoti nelle tre dimensioni dello spazio fisico”. La rivoluzione silenziosa del rapporto attuale al tempo e allo spazio, che viviamo da appena due secoli, preannuncia altre evoluzioni, altre sorprese, altri mezzi da concepire per soddisfare la brama umana dell’Altro. Come si chiamerà la prossima età?

* Ordinaria di letteratura italiana del Rinascimento alla Sorbonne Nouvelle Paris 3.

(27 aprile 2017)



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