Tutelare la biodiversità: è tutta salute

Marinella Correggia



Uno degli effetti del Covid-19, il virus causa di un’epidemia di influenza e di panico accompagnata da misure inusitate, è stato il divieto da parte del governo cinese di vietare il consumo di animali selvatici. Si cerca di archiviare il «sapore selvaggio» amato da una parte dei cinesi (una minoranza); e la biodiversità non potrà che giovarsene visto che, ne è convinta la Fondazione China Biodiversity Conservation and Green Development, stavolta l’interdizione dovrebbe rimanere: «Il coronavirus ha dato una lezione ambientale a tutta la Cina, sull’importanza di proteggere gli animali selvatici, per la salute».

Nella comparsa di nuovi virus, l’arroganza (motivata o no dal bisogno) delle attività umane nei confronti degli ecosistemi e della biodiversità c’entra molto: l’invasione di nicchie ecologiche altera i sistemi di relazione fra le specie e si somma agli squilibri climatici. Anche Aids, Ebola, influenza aviaria, Sars, Mers, epidemie che hanno colpito la specie umana negli ultimi decenni, sono dovute al salto di specie (1).

A livello internazionale, sono centinaia le specie minacciate dall’esplosivo consumo della cosiddetta bush meat (carne di boscaglia), anche in versione marina (mammiferi acquatici come balene, lamantini, delfini, tartarughe, uccelli), e spesso a danno di specie protette, inserite nella Lista rossa dell’Iucn (Unione internazionale per la conservazione della natura). Sostenibilità e regolamentazione per questo settore sono state chieste nel corso della conferenza, tenutasi nel febbraio 2020 a Gandhinagar in India, della Convenzione internazionale per la conservazione delle specie migratorie e della fauna selvatica.

Ma gli incontri ravvicinati con la fauna selvatica sono solo uno degli aspetti che caratterizzano il rapporto complesso fra gli esseri umani, gli ecosistemi naturali e la biodiversità che li popola. Per coincidenza, proprio la Cina dovrebbe ospitare nel prossimo ottobre a Kunming la Cop 15 (Conferenza delle parti) sulla diversità biologica ovvero la riunione dei paesi firmatari della relativa Convenzione Onu (Cbd, approvata a Rio de Janeiro nel 1992 ed entrata in vigore nel dicembre 1993). La conclusione del Decennio Onu per la biodiversità, in questo 2020, coincide con l’avvio dei negoziati per sviluppare una Strategia per la conservazione della biodiversità post-2020, giuridicamente vincolante in termini di verifica e di applicazione. Il successo di questa strategia è vitale anche per il raggiungimento dei 17 Obiettivi Onu per lo sviluppo sostenibile e per il controllo della crisi climatica sulla base dell’Accordo di Parigi del 2015.

Il piano strategico precedente relativo alla biodiversità ha coperto il periodo 2011-2020, cercando di applicare i 20 obiettivi detti Aichi Bioversity Targets (2) mirati ad arrestare la perdita di biodiversità e garantire ecosistemi resilienti entro il 2020. Gli obiettivi di Aichi parlavano di visione: «Per il 2050, la diversità biologica viene valorizzata, preservata, usata in modo sostenibile e razionale, mantenendo i servizi ecosistemici, per un pianeta sano a beneficio di tutti». Del resto gli ecosistemi e le specie che li popolano sono l’albero della vita, per gli umani.

Ma nel decennio, i progressi sono stati molto parziali; anzi per certi versi si è registrato un arretramento: si continua a segare il ramo sul quale siamo seduti. È vero che l’obiettivo è arduo. Nel 2019, il Global Assessment Report on Biodiversity and Ecosystem Services (3) dell’Intergovernmental Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (Ipbes), la massima autorità scientifica in materia di biodiversità, ha ricordato che la natura viene distrutta a un ritmo da cento a mille volte più veloce della media degli ultimi 10 milioni di anni, sostanzialmente a causa dell’attività umana. A essere minacciate di estinzione sono un milione di specie animali e vegetali; è deteriorato il 75% degli ambienti terrestri e marini. Sono minacciati oltre il 40% degli anfibi, il 33% dei coralli, un terzo dei mammiferi marini.

Cinque le minacce principali individuate dall’Ipbes: il cambiamento dell’uso dei suoli con distruzione e degrado degli habitat (per esempio la perdita di 100 milioni di foreste dal 1980 al 2000; il sovrasfruttamento delle risorse naturali (si pensi ai prelievi eccessivi di organismi animali e vegetali); i cambiamenti climatici; l’inquinamento (già solo la plastica in mare, è aumentata 10 volte dal 1980); diffusione di specie aliene invasive.

La perdita di biodiversità non è una questione solo naturalistica, attraversa lo sviluppo, l’economia, la sicurezza. L’impatto su diritti umani fondamentali è pesante, come indicava nel 2017 un rapporto dell’Alto Commissariato per i diritti umani delle Nazioni unite (4). La biodiversità è necessaria per i servizi ecosistemici che sostengono un ampio raggio di diritti umani fra i quali cibo, salute, acqua, cultura. Ne dipendono praticamente tutti i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile (Sdg).

Come si legge nel rapporto della Fao State of the World’s Biodiversity for Food and Agriculture (5), un pugno di specie, 12 vegetali e 14 animali soddisfano il 98% del fabbisogno alimentare mondiale: un’evidente erosione della molteplicità delle forme viventi. La biodiversità del suolo, poi, conosce un degrado in tutte le regioni del mondo. E dal 1900 si sono persi l’80% delle zone umide interne e il 60% di quelle lungo le coste. Il 33% delle specie ittiche sono stressate dall’eccesso di pesca. Le api, importanti agenti impollinatori, sono decimate. Vale lo stesso per quelle popolazioni di animali – pipistrelli, uccelli e insetti – che contribuiscono a regolare naturalmente gli agenti infestanti. Le foreste globali si sono dimezzate negli ultimi decenni. Parallelamente negli ultimi 8 anni sono scomparse anche 3 milioni di piccole aziende agricole in Europa. La biodiversità è fondamentale per l’agricoltura (Dichiarazione Nyeleni del 2007); si pensi alla questione del mantenimento della diversità genetica e a quella delle sementi conservate dai produttori in una gestione dinamica della biodiversità, in contrapposizione all’uniformità dell’agribusiness.

Perché non sono stati raggiunti gli obiettivi di Aichi? Secondo le organizzazioni ambientaliste che fanno parte della Global Forest Coalition, «per mancanza di trasparenza e anche di meccanismi sanzionatori. E per eccessiva indulgenza rispetto alle esigenze economiche. Ma l’obiettivo centrale della Cbd, pur senza ignorare le interazioni con il resto, è rappresentare in primo luogo gli interessi della biodiversità». Insomma non sono state prese di mira adeguatamente le cause economiche.

I negoziati ora in corso per l’accordo post-2020 partono da una bozza zero discussa in modo partecipato dai governi, dalle organizzazioni internazionali, dalle reti della società civile, dagli esperti e dal settore privato. La bozza prevede cinque obiettivi principali da raggiungere entro il 2050, con traguardi concreti da raggiungere.

Gli obiettivi principali dell’accordo, sui quali si concentra il negoziato, in corso sono: la protezione di un terzo degli oceani e degli ecosistemi terrestri del pianeta entro il 2030 (adesso siamo al 17%); una riduzione significativa (da determinare nel negoziato) del numero di specie a rischio di estinzione e un aumento delle popolazioni delle specie native sopra i livelli che ne garantiscano sicur
ezza (questo significa anche il controllo del commercio illegale di fauna e flora minacciate di estinzione, un traffico purtroppo fiorente malgrado la Convenzione Cites del 1973, 182 Stati membri); un controllo sulle specie invasive, riducendo di una congrua percentuale il tasso di nuove introduzioni e sradicando o controllando le specie aliene invasive fino a eliminarle o ridurle entro il 2030 dai siti prioritari per la natura; il contenimento dell’inquinamento da rifiuti di plastica e dei fertilizzanti nei suoli (azoto e fosforo) in eccesso del 50%; la realizzazione di interventi e progetti chiamati soluzioni natura o, in gergo tecnico, Nature-based Solutions (nuove foreste, restauro di ecosistemi degradati) in grado di sequestrare carbonio e contribuire per il 30% agli impegni di mitigazione necessari a raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi.

In parallelo, la bozza zero si pone l’obiettivo di migliorare l’uso delle specie selvatiche a beneficio di milioni di persone, soprattutto le più vulnerabili; rendere più sostenibile l’uso della biodiversità in agricoltura; proteggere gli ecosistemi per aumentare anche la disponibilità di acqua potabile per milioni di persone; assicurare che i benefici relativi all’uso delle risorse genetiche siano equamente condivisi.

Fra gli strumenti per l’applicazione, previsti dalla bozza zero: eliminare i sussidi dannosi per la biodiversità e allo stesso fine riformare gli incentivi pubblici e privati, economici, culturali e normativi; rendere la biodiversità un elemento centrale delle politiche e normative locali e nazionali. I valori della biodiversità devono essere riconosciuti da tutti i settori e la popolazione deve impegnarsi per stili di vita e consumo sostenibili. Le conoscenze e le pratiche dei popoli indigeni e delle comunità locali vanno valorizzate e condivise, naturalmente sulla base del loro consensi.

La bozza zero viene scrutinata in questi mesi anche dalle organizzazioni ambientaliste internazionali, che sulla base dell’esperienza precedente avanzano critiche e proposte. Raccomandano intanto di non fare passi indietro e di non accontentarsi di impegni volontari da parte di paesi e imprese. Attenzione poi a non rendere la biodiversità una faccenda dipendente dal mercato. Suscitano perplessità anche le cosiddette soluzioni naturali alla crisi climatica, quando diventano una scappatoia e un commercio di indulgenze; quando, come ha spiegato Friends of the Earth International, «si distrugge da una parte e si ripristina dall’altra» o si coinvolge la natura in false soluzioni tecnologiche come la Beccs (bioenergia con cattura e stoccaggio del carbonio).

E infine: mai dimenticare che ridurre la disuguaglianza è imperativo perché essa è fra le cause principali della distruzione e del degrado degli ecosistemi.

Il 2020 sarà l’anno del cambiamento?
NOTE

(1) Francesco Bilotta, «Gli squilibri climatici generano nuovi virus», Il manifesto, 27 febbraio 2020

(2) https://www.cbd.int/sp/targets/

(3) https://ipbes.net/global-assessment

(4) https://documents-dds-ny.un.org/doc/UNDOC/GEN/G17/009/97/PDF/G1700997.pdf?OpenElement

(5) http://www.fao.org/3/CA3129EN/CA3129EN.pdf
(6 marzo 2020)





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