Tutti con Obama

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di Emiliano Sbaraglia, da Denver

In questi giorni di Convention dei Democratici americani, Denver ha assunto le sembianze di una città sotto assedio, con migliaia di poliziotti in assetto da guerra, saliti alla ribalta delle cronache per l’arresto di quattro neonazisti americani, catturati in circostanze rocambolesche e non così chiare come i resoconti dei quotidiani hanno lasciato trasparire. Un elemento inquietante a cui volutamente si è dato poco credito, forse anche a ragione, ma che come già altri hanno scritto ha per lo meno avuto il merito di far emergere la paura sottesa che si percepisce dentro e fuori il Pepsi Center, riguardo la possibilità di un attentato ai danni di Barack Obama.

Ad ogni modo nelle strade di Denver si respira soprattutto un’aria di fiducia, un’atmosfera caratterizzata da quella speranza divenuta parola-chiave nel linguaggio politico del candidato afroamericano, sia nel corso delle primarie che in questo scorcio di vera e propria campagna elettorale. E non solo. Alcune delle manifestazioni che si sono svolte tra il 25 e il 27 di agosto hanno restituito anche le varie anime che compongono i Democrats. Sono sfilati i pacifisti, supportati dalla sinistra del partito, che in particolare chiedono al loro candidato di non cedere al “moderatismo obbligato” funzionale alla vittoria finale (e ben rappresentato dalla scelta alla vicepresidenza di Joseph Biden e dal discorso pacato e rassicurante della potenziale first lady Michelle), almeno in fatto di guerra e diritti umani, temi sui quali hanno insistito anche i veterani di guerra, che hanno aperto il loro corteo (che ha fatto registrare qualche tafferuglio) con uno striscione eloquente: “No war in Iraq”. Ma hanno sfilato anche i sostenitori di Hillary Clinton (circa un migliaio), per far vedere che la sconfitta della donna che tante donne rappresenta, non aveva scalfito la loro fede. Anzi.

Da qui il peso che le relazioni di entrambi i Clinton hanno assunto durante la Convention. Nella classica e scontata verve retorica che ha caratterizzato tutti gli interventi, elemento fondamentale dell’altrettanto classico scenario spettacolarizzato costruito ad arte dall’organizzazione sul palco e in platea, non era affatto scontato che Hillary e Bill si pronunciassero con tanta determinazione a favore di Obama, come confermavano le schermaglie sottotraccia e tenute a fatica al di fuori del dibattito pubblico nei giorni precedenti, che preoccupavano non poco il team del Senatore dell’Illinois. Così, proprio nel momento della votazione dei delegati, che eccezionalmente sulla loro scheda trovavano i nomi sia di Hillary che di Barack, per volontà di quest’ultimo in omaggio all’alleata-rivale, dopo i primi risultati è stata la stessa Hillary a sospendere la consultazione, per invitare l’assemblea a scegliere Obama quale candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti per acclamazione. Qualche ora prima, il marito Bill aveva messo da parte i recenti livori, descrivendo Obama come “l’uomo giusto” per la battaglia alla Casa Bianca contro i repubblicani, non senza aver prima ricordato con orgoglio e malizia i diciotto milioni di americani democratici che si sono espressi a favore della consorte nel corso delle primarie.

E’ stato a quel punto che il candidato alla presidenza si è finalmente concesso alla platea in delirio, dopo aver abbracciato il vicepresidente Biden in quel momento sul palco, e ventiquattr’ore prima del suo attesissimo discorso finale, previsto questa notte presso il vicino stadio di football, che rispetto al Pepsi Center può contenere oltre cinquantamila posti in più, tutti “sold out” a poche ore dalla messa in vendita effettuata circa un mese fa, come ci conferma Sandra Smith, professione bibliotecaria alla “Denver Library”, situata al centro della città: “Il mio capo è afroamericano, e per assicurarsi un ticket all’Invesco Field per la sera del 28 agosto si è messo in fila tutta la giornata”. L’attesa precedente la Convention si è fatta sentire anche tra gli scaffali della biblioteca dove Sandra lavora: “In queste settimane le biografie e i libri su Obama sono stati richiesti in continuazione. E quello che più mi ha colpito è che a consultarli erano soprattutto giovani”.

La parola che metterà fine a questa storica kermesse, che sicuramente ha toccato il punto di maggior commozione nel corso della prima giornata, quando Ted Kennedy ha sfidato il suo male tragico e incurabile per non far mancare una simbolica quanto politicamente significativa presenza, sarà naturalmente affidata al protagonista numero uno della Convention, a quarantacinque anni esatti dal mitico discorso del “sogno”. Un Barack Obama che di certo è riuscito nell’intento di rafforzare la sua candidatura all’interno del partito, allo stesso tempo recuperando qualcosa dal punto di vista dell’immagine, nei confronti di tutto l’elettorato americano che deciderà di recarsi alle urne per scegliere il suo presidente.

Sembra averlo intuito anche John McCain, che stringe i tempi e la cerchia dei papabili alla vicepresidenza, in vista della Convention repubblicana prevista a Minneapolis dal primo al quattro di settembre. Nel frattempo Rudolph Giuliani, sindaco newyorkese del 9/11 e freccia nell’arco del Senatore dell’Arizona, ha già svelato parte di quella che rappresenterà la strategia del suo partito: attaccare il candidato democratico su questioni razziali e di sicurezza nazionale e internazionale, cercando di far dimenticare gli errori e gli orrori di otto anni di amministrazione-Bush almeno per un giorno: il prossimo quattro novembre.

(28 agosto 2008)



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