Uccidere per razzismo, il crimine più grave
C’è un film presentato alla 65esima mostra di Venezia che si chiama Teza. Un bel film, girato da un etiope dagli occhi che ridono. In una delle scene finali il protagonista ritornato in Germania per pochi giorni, viene preso a sprangate, finisce in ospedale massacrato e pieno di bende, ma si salva e resta zoppo. All’uscita, io e il mio ragazzo abbiamo parlato ore di questa scena. “Per me non meritano di vivere” mi ha continuato a ripetere, riferendosi a quelle persone che prendono a sprangate un essere umano per il solo colore della pelle. “E’ il crimine più grave”. Discutevamo perché non potevo accettarlo. Non sono mai riuscita a pensare che qualcuno non meritasse di vivere. Vorrei vedere certe persone, che sono stati giudicati aver commesso certi crimini, marcire in carcere per il resto dei loro giorni, ma farle vivere, vivere di quello che hanno fatto. Discutevamo così, convinti in fondo che potevamo permetterci di parlarne vivamente perché si trattava ormai di gesti lontani, appartenenti ad altri paesi.
Uccidere per razzismo è il crimine più grave. Non c’è ideologia alla base, non c’è razionalità: le razze non esistono neppure – ormai lo sanno tutti – sono costruzioni politiche di un’epoca che si pensa passata. Non c’è giustificazione, non c’è patologia, per quanto mi riguarda, non c’è neppure possibile comprensione. C’è solo furia violenta per sfogare le proprie repressioni e le proprie fragilità. Non c’è bisogno di leggere Hanna Arendt per sapere che il male, è dentro ognuno di noi, che la banalità del male non è dei malvagi, dei folli e dei criminali “per natura” – contraddizione in termini – ma di tutti. Che sono le condizioni politiche e sociali che giustificano e legittimano atti altrimenti reprimibili.
Rimango sbigottita quando leggo sul Forum di Repubblica che non c’entra il razzismo. Uno ha scritto di restare ai fatti. E non è un fatto il colore della pelle di Abba? A 20 anni, quando avevo un anno in più di Abdoul, io e un gruppo di amici abbiamo rubato un anguria alle 6 di mattino da un furgone. Stesse condizioni, al posto dei biscotti l’anguria. A 4 anni di distanza, come del resto 10 minuti dopo averlo fatto, mi dispiace per quell’uomo che si deve svegliare alle 5 e che si vede sottrarre la sua merce da una figlia di papà che, per comprarsi un’anguria, certo non ha problemi. Ma rimango convinta che un’anguria in meno non abbia fatto la sua sfortuna (il ribattere “eh si ma se tutti facessero così” è inutile perché sappiamo bene che tutti non fanno così e se lo fanno lo fanno una volta nella vita) e che a noi un’anguria in più ha fatto uno di quegli episodi che racconti ridendo quando ricordi le giovani estati. A noi nessuno ha preso a sprangate. Eravamo tutti bianchi, due ragazze carine e tre ragazzi con la faccia da primi della classe e con i soldi in tasca. Nessuno ci ha preso a sprangate perché non si prende a sprangate per un’anguria né per un pacchetto di biscotti (per quanto mi riguarda non si ammazza neanche per una partita di coca, 50 mila euro o un confine, ma questo non è il punto), ma per il colore della pelle si. Ai due assassini dell’altra sera qualcuno ha sentito urlare “brutto ladro di merda”? Non mi risulta.
Rimango sbigottita quando sento parlare d’immigrazione sregolata. Inutile ora scrivere d’immigrazione, del perché nessuno ci sta invadendo – per fortuna degli altri aggiungerei – del come l’integrazione sia la parola più fraintesa dai politici e dai cittadini, di perché la chiusura totale delle frontiere non esiste perché sarebbe la morte dell’economia dei paesi occidentali, e i politici, al di là della loro retorica, lo sanno. Inutile parlarne perché con l’episodio di via Vatteri l’immigrazione sregolata c’entra poco o nulla. Abdul era italiano. Cittadinanza Italiana. Vuol dire che poteva votare, che aveva lo stesso passaporto di quelli che lo hanno ucciso, che era iscritto all’anagrafe di Milano. Il padre è in Italia da trent’anni. Trent’anni. Io non ero neanche nata, uno dei presunti assassini neppure.
Rimango sbigottita quando sento parlare di strumentalizzazioni. Ripeto, non c’è bisogno di leggere Hanna Arendt, né di scomodare Mussolini e le leggi razziali. Se è possibile che qualcuno oggi, a Milano, uccida un ragazzo di colore è anche perché ci sono stati dieci anni di revisionismo storico, televisione spazzatura, cultura politica qualunquista e populista, politiche xenofobe e discorsi politici che alimentano la discriminazione. Quando torno in Italia vedo il cambiamento. L’Italia è cambiata antropologicamente. E’ come quando la vecchia zia torna dagli Stati Uniti. Dopo tanto tempo passato via, è più facile per lei notare come sua sorella litighi di più con il marito, come il bambino sia cresciuto e come la nipote si droghi di nascosto. Questi cambiamenti sono stati per anni sotto gli occhi di tutti e nessuno li ha visti, quelli che stanno fuori tornano e li vedono subito. Non sono più intelligenti, hanno solo la colpa di non esserci stati.
Non seguo più tanto le vicende del bel paese, un po’ perché ne soffro e un po’ perché suscitano in me sempre meno interesse. Di questo me ne vergogno, è una confessione che non riesco mai a fare. Ma l’omicidio di Abdoul mi è parso subito, come qualcosa di diverso, di molto più grave, di molto più lancinante. Un evento che smaschera per un attimo e per pochi giorni lo schifo che noi stessi ci nascondiamo così bene.
Leggo le dichiarazioni del padre di Abdoul e rimango sbigottita ancora. Questa volta non per la rabbia che mi suscita, ma per la speranza e l’amore che trasmette. Non una parola d’odio, non un riferimento alle persone che hanno ucciso suo figlio, non un po’ di rancore, non un po’ di furia. La tristezza di una famiglia che neanche si era resa conto di essere nera.
A questa famiglia va tutta la mia commozione, per quanto poco questo possa servire.
Caterina Sarfatti
(18 settembre 2008)
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