Un appello per ripensare le politiche per la formazione

Guglielmo Forges Davanzati

1. A partire dalla riforma Gelmini del 2010, si è avviata una lunga stagione di definanziamento del sistema formativo italiano. Il tremontiano “con la cultura non si mangia” diede impulso alla delegittimazione dell’istituzione. L’obiettivo dichiarato fu quello di accrescere l’avanzo del settore pubblico, drenando risorse dal settore della formazione. Al tempo stesso, ci si proponeva di ridurre il mismatch nel mercato del lavoro, ovvero di accrescere l’occupabilità dei giovani.

L’istruzione viene concepita come un puro investimento, ovvero come una spesa da parte delle famiglie e del settore pubblico al fine di ottenere ritorni in termini di salario e status.
I tagli al settore formativo diventano sempre più, nel corso degli anni, tagli selettivi a danno soprattutto delle sedi del Sud. La loro legittimazione viene trovata nei ranking che periodicamente si occupano di stabilire classifiche fra Atenei del Nord e Atenei del Sud. Vi è ampia letteratura specialistica che mostra che l’equiparazione non ha senso, dal momento che non ha senso il confronto fra Dipartimenti eterogenei fra loro.
Sgombriamo il campo da un luogo comune. Le Università del Nord non sono migliori di quelle meridionali. Probabilmente lo sono nella percezione delle famiglie meridionali e lo sono quasi sempre nelle classifiche pubblicate periodicamente.
Sgombriamo il campo allora da un altro equivoco: quelle classifiche – che pure contribuiscono a orientare le scelte di immatricolazione – hanno ben poco di scientifico. Molto spesso sono costruite su indicatori che fanno risultare ciò che i committenti vogliono far risultare. Alcuni esempi. La prima graduatoria delle università mondiali fu prodotta nel 2003 ed è nota come la classifica di Shangai. Lì si pesano le Università sulla base del numero di Premi Nobel ricevuti dai docenti e dagli ex alunni, nonché le medaglie Fields per i ricercatori di matematica. Curiosamente non si prendono in considerazione i Premi Nobel per la letteratura. La classifica c.d. QS si basa su variabili reputazionali: in modo autoreferenziale, si chiede ai professori di indicare, a loro avviso, quali sono le Università che, nel loro ambito disciplinare, considerano più prestigiose. La classifica QS è nota, fra gli addetti ai lavori, per presentare risultati estremamente volatili: p.e. fra il 2014 e il 2015 – in un solo anno – l’Università di Siena ha perso ben 221 posizioni. Le metodologie utilizzate, inoltre, ignorano del tutto i punti di partenza, la storia delle sedi universitarie e il loro patrimonio. È sufficiente considerare che le sole Università di Harvard e Yale, negli Stati Uniti, hanno un bilancio pari a circa il 75% di quello di tutte le Università pubbliche italiane per dar conto della scarsissima attendibilità dei “ranking”.
Queste politiche si innestano in uno scenario più ampio di continua recessione dell’economia italiana, sinteticamente descritto a seguire.

2. L’Italia non cresce perché continua a ridursi la produttività del lavoro, in una spirale che dura da oltre venti anni e che segnala valori della produttività quasi costantemente inferiori alla media europea nel periodo considerato. La bassa crescita della produttività del lavoro è imputabile a due fattori: il calo degli investimenti pubblici e privati e la continua riduzione della quota dei salari sul Pil. Proviamo a capire perché ciò è accaduto, a partire da alcune considerazioni sulla storia recente della nostra economia. Terminato il ‘miracolo economico’ degli anni cinquanta-sessanta e dunque la stagione di una crescita trainata dalle esportazioni, negli anni settanta si registra un imponente ciclo di lotte operaie. Aumentano gli scioperi, diminuiscono le ore lavorate, aumentano i salari monetari, con conseguente inflazione conflittuale e peggioramento del saldo delle partite correnti. Le imprese del ‘triangolo industriale’, nel tentativo di contenere la conflittualità operaia e recuperare competitività di prezzo, avviano processi di decentramento produttivo, spostando la produzione in unità di piccole dimensioni inizialmente nel Nord Est.

Si indebolisce, per conseguenza, il potere contrattuale delle organizzazioni sindacali e l’inflazione – che negli anni precedenti era estremamente alta anche per il doppio shock petrolifero del 1973 e del 1979 – comincia a essere ridotta. Dopo il picco raggiunto nel 1982 (14.7%), per tutti gli anni ottanta il tasso di inflazione continua a scendere, arrivando al 4.7% del 1987. Ciò è imputabile, da un lato, alla fine della stagione del conflitto dentro e fuori la fabbrica, e dunque all’avvio di una fase di moderazione salariale, dall’altro, all’aumento dei tassi di interesse finalizzato ad attirare capitali speculativi per riequilibrare la bilancia dei pagamenti.

L’aumento dei tassi di interesse ha però effetti di segno negativo sulla dinamica degli investimenti privati, non compensati da significativi aumenti degli investimenti pubblici. Negli anni ottanta, l’aumento della spesa pubblica è prevalentemente dovuta a un aumento della spesa corrente (che passa dal 35% del 1980 al 45% in rapporto al Pil del 1990), finalizzata a neutralizzare – definitivamente – i residui di conflittualità ereditati dal decennio precedente. L’ingresso nello SME nel 1979 – sistema di cambi fissi con banda di oscillazione fissata al 6% – introduce ulteriori rigidità per le imprese, dal momento che rende difficili svalutazioni competitive.

Si fa strada la necessità di dotarsi di un ‘vincolo esterno’, assunto necessario per avviare una stagione di riforme nel segno della ‘modernizzazione’ e soprattutto di tenere sotto controllo i conti pubblici[. Il 1992 segna un anno di svolta. Le imprese italiane continuano a perdere quote di mercato nel commercio estero, a causa di una pressione competitiva sempre più globale, ed esauritosi ormai definitivamente il conflitto sociale, occorre ripristinare le condizioni affinché le imprese italiane recuperino competitività. In un contesto peraltro segnato da attacchi speculativi al nostro debito pubblico. Si sceglie la linea delle politiche “lacrime e sangue”, ovvero misure fiscali fortemente restrittive, ufficialmente finalizzare a ridurre il debito pubblico, di fatto funzionali a comprimere la domanda interna, con conseguente riduzione delle importazioni. Il potere contrattuale dei lavoratori si riduce come conseguenza dell’aumento del tasso di disoccupazione per l’intero periodo che va dal 1992 all’inizio degli anni duemila, comportando compressione dei salari.

L’arrivo della crisi del 2008 fa deflagrare tutti i problemi sedimentatisi nei decenni precedenti e si innesta su una struttura produttiva divenuta progressivamente sempre più fragile e caratterizzata da piccole dimensioni aziendali, forte dipendenza dal credito bancario, specializzazione in settori tecnologicamente maturi (turismo, agroalimentare, beni di lusso).
 
In estrema sintesi, si può comprendere la storia recente dell’economia italiana come la storia dei tentativi di accrescere la competitività di prezzo delle nostre imprese, attraverso manovre fiscali, politiche monetarie e accordi di cambio che hanno sistematicamente posto le nostre imprese nella condizione di competere riducendo i salari.

3. L’appello della prof. Valeria Pinto è pienamente condivisibile. Si tratta di invertire la rotta provando a far capire alle famiglie italiane con figli laureati disoccupati o all’estero che:

i) l’istruzione è comunque un valore in quanto tale;
ii) che, in condizioni normali, l’istruzione dovrebbe essere la precondizione per la mobilità sociale
iii) la convinzione diffusa per la quale la condizione di disoccupazione di tanti giovani laureati che dipenda da eccesso di istruzione coglie solo una parziale verità. Il punto chiave sta nel riconoscere che l’istruzione non è mai in eccesso: lo è solo, come accade in Italia e ancor più nel Mezzogiorno, se le nostre imprese non esprimono una elevata domanda di lavoro altamente qualificato.
 

(6 marzo 2020)




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