Un fallimento deliberatamente perseguito: le regionali liguri 2020
I fatti che in Liguria hanno preceduto e accompagnato l’elezione regionale del 20/21 settembre 2020 confermano l’estrema mutazione degenerativa di un assetto politico d’area vigente dal secondo dopoguerra. Ossia – già allora – la colonizzazione spartitoria e sostanzialmente collusiva di ogni ambito del Sociale da parte delle forze politiche. In una sequenza di otto passaggi.
A) Alla fine del 2019, una ricognizione non superficiale sugli equilibri vigenti in Regione Liguria evidenziava un dato di particolare rilevanza: alla scadenza del suo ciclo amministrativo, la guida dell’Ente presieduto dal berlusconiano/salviniano Giovanni Toti risultava largamente contendibile. Ossia, si riscontravano consistenti opportunità per un ricambio radicale negli equilibri e – quindi – nelle logiche di governo del territorio.
Infatti, l’immagine del Presidente appariva: profondamente usurata: giornalista Mediaset del tutto estraneo al contesto ligure e orientato a surrogare con trovate comunicative di palese inconcludenza la totale carenza di un’idea-Liguria; indigeribile per la prevalente cittadinanza la pratica politica prioritaria dell’esecutivo, orientata al saccheggio del pubblico denaro (con particolare attenzione al settore sanitario) e all’affarismo (con particolare declinazione nel consumo speculativo del territorio); palesemente disgregato al proprio interno l’intero fronte di Destra, in parte perché alla ricerca di alternative alla ricandidatura di un Toti reputato perdente, in parte per la fronda a Ponente guidata dall’ex ministro Claudio Scajola, “il killer perfetto” della DC tavianea, da tempo sul carro di un Berlusconi molto sospettoso riguardo alla lealtà dell’ex sostituto di Emilio Fede al TG4.
B) Comunque, va precisato che la giunta Toti, nella sua palese inefficienza gestionale e pericolosità democratica, si era limitata a riciclare logiche e prassi ereditate dalla precedente compagine a maggioranza PD, guidata dall’ex ministro dalemiano Claudio Burlando. In particolare, subentrando tanto nei rapporti con i soliti finanziatori del governo locale come in spericolati affari in corso, in particolare la speculazione immobiliare sulla collina di Erzelli.
Un’ininterrotta continuità altamente deprecabile, riproposta identica a se stessa nel corso di numerosi lustri dal ceto politico locale (nelle sue diverse colorazioni), con effetti devastanti sulla qualità della vita sociale e civile liguri. All’origine di un declino che può essere interrotto e poi invertito soltanto promuovendo profonde discontinuità rispetto al passato: dall’etica pubblica alle scelte, tanto di indirizzo come operative. Ossia la fuoriuscita dal quadrilatero mortifero svendita della sanità pubblica – dissesto idro-geologico – de-industrializzazione – emergenza demografica. E poi un rapporto attivo con l’Europa, l’attenzione alle questioni ambientali, la pianificazione strategica del rapporto ricerca-impresa, il varo del Piano Paesaggistico Territoriale (PPTR)… Tutti temi fuori dai radar di una politica miope e mediocrissima. Capace solo di peggiorare nettamente la situazione, con è avvenuto con l’attuale Giunta.
C) Stante questo contesto, nel novembre scorso un gruppo di cittadini liguri (gli autori di queste note) variamente “di sinistra”, impegnati nel sociale ma senza appartenenze di partito, si erano convinti della possibile inversione di tendenza e del successo a portata di mano mettendo in campo un soggetto civico radicalmente alternativo al pluridecennale andazzo di potere. Il gruppo di “OLTRE”: cambiare il quadro politico intercettando una percepibile sensibilizzazione popolare alla sua insostenibilità, a fronte della dissennata gestione della pandemia da parte dell’Ente Regione (recordman di contagi e decessi), riportando alla partecipazione democratica fasce di cittadinanza orientate al non-voto.
Per questo motivo promuoveva la candidatura alla presidenza ligure di Aristide Fausto Massardo, ex preside di Scuola Politecnica (la fusione di Ingegneria e Architettura), sia per le skills professionali (appartenenza alla comunità scientifica europea e comprovate attitudini gestionali), sia per vissuto (in rotta di collisione con l’establishment per l’operazione speculativa a Erzelli quanto critico dell’assenteismo accademico rispetto al dibattito pubblico locale). In contemporanea, un secondo gruppo, impegnato da tempo nelle questioni ambientali, lanciava un’altra candidatura a dichiarata connotazione civica: quella del giornalista Ferruccio Sansa. In questo caso le ragioni della preferenza erano l’esposizione mediatica, la vis polemica e la notorietà del nome (il padre Adriano era stato sindaco di Genova dal 1993 al 1997, poi defenestrato da un colpo di mano del PCI burlandiano, insofferente della sua autonomia amministrativa).
Alla ricerca di possibili sinergie tra i due “civici”, il 7 gennaio 2020 quelli di OLTRE ne promossero un faccia-a-faccia riservato. In quella sede Sansa si dichiarò non candidato, vanificando qualsivoglia esplorazione di opportunità collaborative. Ma già qualche giorno dopo i supporter sansiani facevano partire una campagna molto aggressiva e “gridata” di promozione del loro favorito, utilizzando la tecnica dei testimonial da talk-show e la delegittimazione dei concorrenti. Mentre Massardo, contro il parere dei suoi sostenitori iniziali ma seguendo le indicazioni di consiglieri d’area renziana-centrista intrufolati nel suo team, preferiva adottare una strategia di bassissimo profilo, tendente all’immobilismo afasico. In attesa di un via libera da parte dei notabilato locale di partito.
D) La contrapposizione competitiva tra i due profili civici per la pole position, nella corsa alla designazione quale candidato alla presidenza, si traduceva in uno stallo reciproco, che determinava il primo vulnus nell’amara vicenda.
Se la società civile non era in grado di esprimere un progetto unitario, “il pallino” di decisore d’ultima istanza, in materia di scelte elettorali (a partire dall’individuazione dell’antagonista del presidente uscente Toti) tornava a quella nomenclatura di partito responsabile del pluridecennale degrado democratico ligure: i nipotini andati a scuola dei vecchi boss, cresciuti nelle pratiche di una (sedicente) politica come scambi negoziali e occupazione degli organigrammi; mettendo sotto controllo sistematico la pubblica opinione, tenuta a bada mediante pratiche clientelari e disinformazioni imbonitorie.
Da quel momento, divenne palese (ancora una volta) l’assoluta incapacità di governo dei processi politici da parte del personale di partiti-gusci-vuoti puramente autoreferenziali, a fronte della pretesa arbitraria di esercitare un presidio esclusivo delle dinamiche sociali. Nella sostituzione di priorità nell’agenda ligure riformista: dalle strategie per sconfiggere la destra sovranista/suprematista su cui poggia(va) l’amministrazione Toti, alla semplice tutela del proprio tradizionale orticello di consensi; in via di inarrestabile restringimento. Il passaggio da una linea d’attacco contro le malefatte e le carenze dell’amministrazione uscente (e – a ritroso – almeno delle tre precedenti, sia di destra che di sinistra) a uno sfinimento di incontri e confronti assolutamente inconcludenti; finalizzati alla misurazione/formalizzazione dei rapporti di forza in un perimetro statico; corrispondente, almeno sulla carta, a quello del governo nazionale giallo-rosa.
E) Vuoto di iniziativa e assenza di spinta aggregativa con un solo effetto: far mar
cire in Liguria le condizioni per una riscossa politica a sinistra. Con precise responsabilità dei dirigenti locali PD (con sospette propaggini romane). Un nome sopra tutti gli altri: il segretario regionale ligure Simone Farello (1974): un opaco quadro di partito.
In effetti, a fronte dell’appello inascoltato del primo ministro Giuseppe Conte di perseguire nelle varie elezioni regionali aggregazioni analoghe a quella che sostiene il governo nazionale, i fallimenti in Puglia e Marche sono chiaramente addebitabili ai Cinquestelle; incapaci di richiamare all’ordine i protagonismi distruttivi di Antonella Laricchia e Gian Mario Mercorelli. Mentre in Campania – indubbiamente – sono state le scelte del PD a determinare il non luogo a procedere, proponendo un candidato indigeribile per i propri partner quale lo sceriffo Vincenzo De Luca. Nel caso ligure, la responsabilità della catastrofe è tutta piddina; ma non per aver espresso una qualche candidatura indifendibile, quanto nell’aver bloccato per mesi l’individuazione di una proposta coerente. L’incubo della giostra ininterrotta – secondo logiche puramente di cordata (clientela/parentela) – di nominativi graditi al segretario regionale; in pratica dedito soltanto a prendere/perdere tempo: il presidente della comunità ebraica Ariel Dell’Ostrologo, il compare d’anello dello stesso Farello Maurizio Conti, un certo Paolo Bandiera del Terzo Settore, l’accomodante Rettore Magnifico Paolo Comanducci…
Questa sterile ricerca di candidabili, veniva valutata esclusivamente sul metro del gradimento di tipo personale da parte del segretario post-comunista.
F) Il confusionismo prodotto dalla ridda ininterrotta di nomi, dalle pratiche dilatorie e dall’arroganza dei guardiani di svanite egemonie, produceva l’effetto di una frammentazione centrifuga del campo anti-sovranista/suprematista.
La consigliera regionale e vestale del Grillismo Alice Salvatore, per ripicca in quanto non confermata quale candidata M5S alla presidenza dell’Ente, ai primi di maggio avviava una scissione dal Movimento e il varo di un nuovo gruppo personale denominato (con inconscia ironia) “Il Buonsenso”. Contemporaneamente si moltiplicavano le auto-candidature estemporanee, tanto che ai nastri di partenza – oltre a Sansa, Massardo, Toti e la Salvatore – gli ulteriori aspiranti contendenti della poltrona di “governatore” risulteranno ben sei: Carlo Carpi (Lista Carpi), Marika Cassimatis (Base Costituzionale), Davide Visigalli (Riconquistare l’Italia), Giacomo Chiappori (Grande Liguria), Riccardo Benetti (Rispetto per gli animali) Gaetano Russo (Il popolo della famiglia).
Una dispersione a tutto vantaggio del presidente uscente, mentre perdurava il gioco al massacro della non-scelta officiato dal PD di Farello. Protratto fino alla metà del mese di luglio – a due mesi dal voto (e con in mezzo l’agosto) – con lo scioglimento delle riserve, ben oltre il tempo massimo: l’indicazione del candidato nella persona che aveva occupato la scena pubblica con più determinazione. Ossia Ferruccio Sansa.
Inutilmente il gruppo dei promotori di OLTRE indirizzava un pubblico appello a Massardo perché non rompesse il fronte anti-sovranista/suprematista in Liguria.
G) Le modalità pasticciate e irresponsabili (accompagnate da palesi riserve mentali) attraverso le quali si era arrivati al tardivo scioglimento del nodo “candidatura anti-Toti”, producevano la seconda ferita: la mancata ricomposizione in una logica unitaria e tentativamente vincente delle due candidature “civiche”.
Da un lato Sansa veniva messo in pista e immediatamente abbandonato a se stesso. Dando l’impressione che – così facendo – l’attitudine sconfittista del PD intendesse precostituirsi l’alibi di un capro espiatorio, su cui scaricare le proprie responsabilità per un esito sfavorevole ritenuto ineluttabile. Al tempo stesso Massardo, dopo mesi di silenzi tattici e accondiscendenze da establishment, palesava uno scarto d’umore, ritenendosi ingiustamente accantonato. Sicché – per risentimento o per insipienza – si rendeva disponibile a “dare la faccia” nell’operazione ligure riconducibile al filibustering romano di Matteo Renzi (e officiata dalla sua proconsolessa locale Lella Paita) per la messa in campo di una lista-disturbo, secondo il disegno di destabilizzare il quadro politico nazionale. In altre parole: Scalfarotto in Puglia e Massardo in Liguria. Sicché, la corsa della maglia giallo-rosa di Sansa era messa a repentaglio da due convergenti erosioni elettorali: sul fronte PD dalla candidatura renziana, su quello 5S dalla Salvatore. E poi la questione dei supporti materiali, per una campagna poverissima e quasi sottotraccia, non supportata da presenze di big nazionali (il vicino di casa Beppe Grillo desaparecido, Orlando non pervenuto, solo le presenze personali di Nicola Zingaretti e Pierluigi Bersani).
Intanto la destra continuava imperterrita l’azione elettorale martellante, mettendo a frutto la propria posizione istituzionale quale punto di riferimento nello smarrimento collettivo da Covid-19. Consentendo a Toti di rinserrare le fila: l’inettitudine dell’opposizione nell’accreditarsi alternativa credibile regalava un’inaspettata immagine vincente al presidente in carica; in più – palesandosi una riconferma sempre più scontata – la possibilità di ritrovarsi con un bel pacchetto di posti da distribuire. Prospettiva irresistibile per le (fino ad allora) fronde interne. Inoltre, strumentalizzando al meglio la rendita di posizione. Ossia occupando i media locali grazie ai sospetti finanziamenti pubblici della Regione. A fronte delle presenze minimali dei competitori su social da clandestinità.
H) L’apertura delle urne elettorali il 21 settembre ha dato conferma della facile previsione di un fallimento annunciato delle opposizioni. Toti incassa il 56%; mentre – comunque – nella sua corsa ad ostacoli (l’agosto di mezzo, l’inaugurazione ad alta visibilità del ponte post-Morandi, il Covid che ha rafforzato l’opzione di governo…) Sansa – con il suo 39% – ha dimostrato spirito combattivo; solo contro tutti (a partire dai suoi presunti promotori desaparecidi). Semmai, disastrose sono risultate le prestazioni dei suoi antagonisti d’area: Massardo che non ha raggiunto neppure il quorum (2,42%) e la Salvatore ferma a un prefisso telefonico (0,89%).
Sicché la Liguria continuerà ancora a subire il continuismo totiano: gli effetti di politiche volte al saccheggio terminale delle sue coste e dei suoi paesaggi a mezzo speculazioni cementifere e inquinamenti vari, la sanità disastrata dall’inseguimento dello screditato modello Lombardia, il declino industriale/portuale occultato dalle chiacchiere da convegni e dalle trovate di spargere ovunque gadget da villaggio vacanza (il red carpet nelle Cinqueterre, gli ombrellini colorati appesi sulle vie palaziali genovesi). Magari volgendo gli occhi altrove mentre crescono gli insediamenti della malavita organizzata nel territorio.
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Il cambiamento non può partire da una qualità umana di infimo livello e da una cultura politica regredita al foro boario. Che non riuscirà mai ad ammettere – nella sua disperata corsa allo scarica-barile – che le intuizioni di OLTRE iniziale erano assolutamente corrette e suffragate dalla lettura di fatti: la contendibilità della poltrona di Giovanni Toti.
Cosa sarebbe diventato il 39% conquistato da Sansa, laddove ci fosse stata una campagna elettorale iniziata per tempo, unitaria e coraggiosamente propositiva, in grado di motivare almeno una parte di quella metà dell’elettorato (sempre più deluso e fatalista) che ha preferito restarsene a casa? Mettendo in campo una politica “alta e credibile”, non perseguendo occasionali alchimie elettorali e assemblaggi vari.
Queste elezioni hanno smascherato e screditato la pochezza di molti attori in campo e il perdurante incaprettamento della società da parte della politica politicante più inetta. Dunque, come ci indicano importanti esempi europei di ripresa civile, è dalla cittadinanza e dai territori – dalle città grandi e piccole – che può partire la rifondazione della democrazia. Di cui darebbero un primo – timido – segnale le consistenti preferenze ricevute dai sindaci candidati nelle liste di centro-sinistra.
Se questa lezione diventerà impegno costruttivo, la ferita del fallimento annunciato verrà sanata già nei prossimi appuntamenti a cui noi liguri saremo chiamati.
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