“Un giorno di pioggia a New York” di Woody Allen
Giona A. Nazzaro
Woody Allen, da sempre, ottiene i suoi risultati migliori lavorando con direttori della fotografia ai quali può affidarsi completamente per dare forma al suo universo poetico e mentale, da sempre molto più astratto e composito di quanto persino i suoi sostenitori più motivati sospettano. Non è un caso che i maggiori risultati Allen li abbia conseguiti intrecciando collaborazioni di lungo respiro che gli hanno permesso di esplorare gli angoli meno evidenti del suo mondo restando sostanzialmente sempre fedele a sé stesso.
Come i grandi registi americani di una volta, Allen alla cifra autoriale preferisce da sempre l’affidabilità artigianale di una bottega che gira a pieno regime, ma, senza dare troppo nell’occhio, come se in fondo non facesse nulla di eccezionale, come se si trattasse solo di portare a casa una giornata di lavoro piuttosto che l’ennesimo capolavoro. In questo senso la fotografia, o meglio la direzione della fotografia, riveste ovviamente un ruolo cruciale.
Le stagioni del cinema di Woody Allen possono essere suddivise, a nostro avviso, in virtù delle collaborazioni sviluppate nel corso del tempo con i direttori della fotografia perché, come avviene con i pittori, ognuno di questi ha portato con sé uno sguardo (colore) inconfondibile che è stato successivamente associato ai film del regista newyorkese. I capolavori degli anni Settanta e dei primissimi anni Ottanta di Allen, a partire da Io e Annie, recano tutti l’inconfondibile segno di Gordon Willis, maestro della fotografia cui la cosiddetta Hollywood Renaissance, da Francis F. Coppola a Hal Ashby, deve moltissimo.
La collaborazione con Carlo Di Palma, a partire dal magnifico Hannah e le sue sorelle, rivela un versante genuinamente sperimentale dell’inquietudine alleniana, evidente, fra l’altro, in film come Ombre e nebbia, Mariti e mogli e Harry a Pezzi.
A partire da Café Society, Allen ha dato vita a una collaborazione con Vittorio Storaro, autore della fotografia che ha teorizzato moltissimo sulla luce e i colori e che, a prima vista, potrebbe sembrare una scelta lontanissima dalla discrezione del regista. E invece è proprio attraverso Storaro che Allen, senza mai dichiararlo, si è ricongiunto alla grande stagione del cinema degli anni Settanta dalla quale in fondo proviene.
Se in Café Society si poteva essere indotti a sospettare l’esercizio di stile elegante ma fine a sé stesso, considerata anche l’ambientazione d’epoca, il successivo La ruota delle meraviglie ha dimostrato come Storaro non solo fosse in grado di modulare il suo lavoro interagendo con la voce e lo sguardo di Allen ma addirittura rievocare le diverse stagioni del regista attraverso un angolo di ripresa o un cromatismo.
Un giorno di pioggia a New York, senz’altro il risultato più compiuto della collaborazione fra Allen e Storaro, riesce nell’impresa da rendere invisibile, nella migliore delle accezioni possibili, sia il virtuosismo del maestro italiano che l’eleganza mozartiana della girandola sentimentale del fato e dei desideri di del regista (è vero si pensa a Lubitsch, ed è inevitabile). Un giorno di pioggia a New York permette di ammirare il talento di due straordinari cineasti all’apice delle loro possibilità senza mai, nemmeno lontanamente, si possa essere indotti a sospettare autoindulgenza o autoreferenzialità.
Raramente, negli ultimi tempi, il cinema di Woody Allen si è librato con tale noncurante grazia. Una grazia tale da far emergere, retroattivamente se si vuole, alcune delle forzature che screziavano risultati notevoli come Mezzanotte a Parigi o Blue Jasmine. Nel mettere in scena la ronde sentimentale di Gatsby (Chalamet) e Ashleigh (Fanning) in visita a New York per quella che si rivelerà una giornata e una notte colme di conseguenze, Allen è come se guardasse al Leo McCarey di Un amore splendido (il sottile lavorio del cuore in lotta con gli ostacoli della città) ma filtrato attraverso la verve di Garson Kanin (i dialoghi che pur ricordandosi l’inarrivabile lezione della screwball comedy sono tutti perfettamente intellegibili e memorabili, come rallentati a misura “rohmeriana”). Attraverso la complicità di Storaro, Allen può addirittura evocare, in alcuni momenti privilegiati del film come la visita al museo o il party dei genitori di Gatsby, la malinconica eleganza di Edmund Goulding, regista dell’indimenticato Grand Hotel. Raramente la levità di Allen è apparsa tanto inevitabile e organica.
Un giorno di pioggia a New York non è l’ennesimo film di Woody Allen, ma il suo lavoro più compiuto e complesso dai tempi di Hannah e le sue sorelle. Un film intimo e avvolto da un tepore che non è mai ritirata dal mondo, ma accettazione consapevole delle contraddizioni e complicazioni di questo. Basti pensare al magnifico dialogo fra la madre (Cherry Jones, personaggio che sembra provenire da un’era lontana di Hollywood) e Gatsby, servito da un elegantissimo movimento in avanti di Storaro (o forse si tratta di uno zoom discretissimo?) che coglie una rivelazione nel pieno di una tormenta sentimentale. Un momento magistrale, invisibilmente virtuoso, che si potrebbe utilizzare come riferimento per tutti gli altri che costellano il film.
Un giorno a New York è il cinema di Woody Allen al suo meglio. E, ancora una volta, è un film autunnale, di un autore che non avrebbe più nulla da dimostrare a nessuno (come lo Scorsese di The Irishman). Eppure, si tratta di un risultato talmente alto e complesso che non si può fare a meno di chiedersi dove condurrà il cinema di Woody Allen dopo questo magnifico e struggente giorno di pioggia a New York.
(29 novembre 2019)
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