Un mare di memoria e oblio
Francesco Filippi
“Mare in fiamme” di Francesco Troccoli (L’Asino d’oro Edizioni, 2020) ha una trama tessuta da incroci di storie nascoste, perdute, dimenticate. Marina, maestra elementare, Orazio, suo nonno eroe di guerra e il piccolo Zihad, che va a scuola aggrappandosi alla sua breve storia di rifugiato, di diverso, insicuro e bisognoso di conferme come lo sono in realtà tutti i bambini. Loro, e gli altri personaggi del romanzo, conducono esistenze che diremmo normali, in una città normale, Roma: alle prese con gli inciampi e le difficoltà di una vita che chiunque legga può facilmente riconoscere come propria. Anche Gary, il badante nigeriano di Orazio, ha una vita normale, se vista con gli occhi di chi, e sono tante e tanti, attraversa mari e deserti in cerca della libertà. Perfino il padre di Marina, Italo, che di mestiere fa il giornalista e che lotta tra la vita e la morte in un ospedale romano dopo anni passati in Libia, è un uomo normale. Un uomo che si è trovato in mezzo a tante passioni che ne hanno segnato la vita e il destino.
Normali eppure eccezionali, perché le vite che si trovano tra le pagine si sostanziano di un continuo rapporto tra due mondi, l’Italia e l’Africa. Sono vite molto simili a quelle di ognuno, dipinte di una realtà che fa parte del quotidiano, del vissuto che ben conosciamo. Vite tra due continenti ma non sospese, bensì costruite, riunite da questa molteplicità di luoghi nel presente e nel passato, proprio come il Mediterraneo, che queste terre unisce e non separa.
Le storie come quelle di Marina, Orazio e Zihad rimangono incastrate nella terra di nessuno di una quotidianità che riguarda un po’ tutti ma che difficilmente entra nei libri. Non al centro della scena ma nemmeno fuori campo: quelle raccontate dall’autore, Francesco Troccoli, sono vite “in periferia”.
I personaggi che popolano Mare in fiamme, donne, uomini, bambini, vivono in quel grigio cono d’ombra che è il “giorno per giorno”: una realtà che forse non fa notizia ma che costituisce la base per un racconto corale della nostra società, e le cui raffigurazioni pubbliche sono spesso in ritardo.
Nel libro ogni personaggio rimane sospeso tra il proprio passato e il proprio presente: tra una storia ereditata e un ora tutto da scrivere, tra i buchi di memoria da riempire e le assenze, le difficoltà e le gioie da conquistare giorno per giorno. Vite che conosciamo tutti perché assomigliano a quelle che viviamo.
Pare strano poter dire questo dei protagonisti di un romanzo che si snoda attraverso due continenti, tra miliziani senza scrupoli, servizi segreti e campi di deportazione; pare strano poter dire che queste storie ci appartengono; eppure la forza di questo libro sta proprio nel fatto che riesce a raccontare, attraverso delle vite normali, la potenza dei grandi accadimenti epocali che hanno sconvolto e continuano a sconvolgere le terre tra il Sahara, le Alpi e il tratto di mare che vi giace in mezzo.
Tutto è quotidiano eppure non conforme, nella narrazione dell’autore: perfino Roma, con le sue contraddizioni e la sua storia pesante e mal ricordata, arranca tra un passato fatto di simboli e morte e un presente di scambio caotico e vivo. I fasci littori sugli edifici assistono al passaggio di una romanità plurale, “romana” nel senso più aperto, vago, internazionale, in quanto “a-nazionale”, del termine. Una realtà che appare molto diversa da quella che a volte capita di sentir raccontare dai media.
Nella borgata di Mare in fiamme ad esempio gli stucchevoli dibattiti sovranisti sullo ius soli risultano vecchi, fuori tempo massimo di fronte alla realtà delle classi delle elementari in cui insegna la protagonista, Marina. Mentre il dibattito pubblico, quello di cui si legge sui giornali, si arena su disegni di legge che pretendono di normare l’identità degli abitanti del paese, quelle classi, quei bambini, con la loro complessità, diversità, bellezza e difficoltà restituiscono un’immagine più variegata, avanzata, vera. Raccontano una società necessariamente plurale, in cui i vecchi schemi di appartenenza non sono saltati, sono semplicemente inutili.
Gli alunni che frequentano la quinta di Zihad vengono da molti paesi, portandosi dietro le loro storie di arrivi e partenze, di famiglie che resistono, che si sfasciano o che, semplicemente, non ce la fanno. Dei bambini normali, che tra loro vivono i drammi e i pericoli dell’infanzia e che si insultano tra loro dandosi del “terrorista palestinese” o della “cinesina” solo perché l’hanno sentito fare dai grandi attorno a loro, scimmiottando un mondo di differenze che non li rappresenta più.
Marina e la sua famiglia, la cui storia ha un piede su ognuna delle due sponde del mare, rimangono in equilibrio tra due stati, due continenti che appaiono lontani ma in realtà non lo sono per nulla. L’Africa che traspare dalle pagine non è un concetto astratto ma parte del vissuto famigliare, passato e presente. Le storie di speranza e disagio che l’autore fa vivere ai suoi personaggi sono esotiche solo per chi ha dimenticato la vita e la storia di questo paese, sprecando la sua complessità attraverso pericolosi vuoti di memoria, vuoti che sono un po’ quelli di tutti noi: “Sai chi era Omar al Mokhtar?” chiede Marina ad Antonio, il padre di uno dei suoi alunni. La risposta negativa è scontata, ed è comune a molti, forse anche a qualcuno tra quelli che stanno leggendo ora. Pochi, nell’Italia di oggi, conoscono il nome del capo della resistenza libica contro gli italiani.
Ed è proprio questa assenza di memoria, questa amnesia diffusa per una fetta consistente del passato coloniale, che racconta più di un manuale di storia la complessità di questo paese. Complessità sintetizzata dal fatto che è scontato, per alcuni personaggi del libro così come per alcuni di noi, essersi persi un pezzo di storia comune in cui gli invasori italiani venivano combattuti dai resistenti libici. Un po’ come avvenne nella Resistenza italiana, tra il ‘43 e il ‘45, quando un pugno di partigiani resistette all’invasione e alla violenza delle deportazioni. Solo che in questo pezzo di storia dimenticata i violenti, quelli che deportavano “eravamo noi”. Il racconto dei rapporti tra le due sponde del mare viene cancellato a forza, per vergogna, probabilmente, e i testimoni di quel che accadde, come Marina e la sua famiglia, sono tra i pochi che riescono a vedere nell’altro che viene dal mare un lungo filo ininterrotto di rapporti e non, come bercia qualcuno anche oggi, come un invasore. Il romanzo di Troccoli parla di una società che ha cancellato dalla propria memoria l’immagine di un passato difficile da condensare in quell’espressione trita, “italiani brava gente”, e che quindi ora si trova spaesata, disarmata, di fronte al confronto con l’altro, con chi cerca salvezza in un paese che, concentrato com’è sul suo presente ombelicale, vede chi viene da fuori come un alieno senza storia e, quindi senza futuro.
Da questa amnesia comune nascono molti degli intrecci del romanzo, in cui il passato di un intero paese torna a pesare sul presente dei singoli, in un perfetto brodo di coltura: la Roma ex imperiale che vede alcuni ragazzini aggrapparsi alla memoria fascista per cucirsi addosso un’identità qualsiasi, che li possa far c
rescere e affrontare la vita, mentre altri sono alle prese con le troppe identità sovrapposte, impegnati a nascondere o esaltare le proprie storie personali per cercare di salvare le proprie radici e il proprio presente.
La dimenticanza sembra un tratto distintivo non solo del passato, ma anche del presente: è un tratto anche della vicenda principale del libro, che parla degli affari e traffici che avvengono oggi tra le due rive del Mediterraneo. Vicende a cui Italo (nome quanto mai evocativo) padre di Marina, pare stesse lavorando prima di finire in coma. Un intreccio che ancora una volta pone in luce il fatto che l’Italia gioca un ruolo, con i propri uomini e i propri interessi, in quel caos senza governo ma con molti padroni in cui si è trasformata la costa sud del Mediterraneo.
La Libia, e in generale l’Africa, vengono dipinte come estranee e lontane dai mezzi di informazione, ma distano solo poche miglia dalle coste in cui d’estate milioni di italiani vanno in vacanza, dove tra i bagnanti stesi al sole può capitare che sbarchino decine di persone in cerca di una speranza, e che arrivino, portati dalle onde, i corpi di chi questa speranza l’ha vista affogare in mare. Questo libro riporta nel loro giusto contesto, vale a dire una accanto all’altra, le vite accomunate e separate da questo mare.
C’è un sacco di umanità, in Mare in fiamme: un’umanità che prova a incastrare tra loro gli aspetti di una contemporaneità complessa, che spesso non trova posto sui giornali se non quando diventa cronaca, ma che è ben conosciuta da chiunque abbia preso un autobus nell’ora di punta in una qualsiasi delle nostre città.
Con Mare in fiamme Francesco Troccoli racconta molte storie che si snodano tra il passato e il presente, tra la speranza e la disperazione, tra la vita e la morte; ma in realtà lo fa, probabilmente, per raccontare una sola storia, più ampia e più vera, la nostra.
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