Un museo per l’Europa
Mariasole Garacci
La mostra “Il Museo universale. Dal sogno di Napoleone a Canova”, alle Scuderie del Quirinale fino al 12 marzo, racconta il saccheggio di opere d’arte da parte delle truppe francesi dopo il Trattato di Tolentino del 1797. Un episodio fondamentale per le idee di patrimonio artistico e identità culturale e per la nascita del museo moderno.
Il museo luogo di democrazia
Nel 2015 il regista russo Aleksandr Sokurov parlava di Europa e di europei nel suo bellissimo film Francofonia, una riflessione sul ruolo dell’arte e della memoria dinanzi al titanico incedere della storia e della politica. Si raccontava qui dell’incontro tra l’eroico direttore del Louvre Jacques Jaujard, che alla vigilia della seconda guerra mondiale aveva organizzato l’avventurosa messa in salvo degli inestimabili capolavori del museo parigino dalla minaccia dei bombardamenti e delle razzie naziste, e l’illuminato conte Franz von Wolff-Metternich, designato da Hitler come supervisore delle opere d’arte della Francia occupata, in vista della loro requisizione nel museo del Führer che sarebbe dovuto nascere a Linz. Nel film, l’istituzione museo è celebrata come il luogo della conservazione e della trasmissione del patrimonio culturale, qui inteso non nei termini di messa a frutto economica cui alcune tendenze della gestione dei beni artistici ci hanno abituato, ma di eredità da trasmettere. E’ il luogo dove il principio dell’accesso dei cittadini ai mezzi per elevarsi spiritualmente e intellettualmente trova realizzazione, e dove si attua il principio per cui il patrimonio appartiene a tutti.
Sono idee, queste, oggi affiancate se non in parte superate da una consapevole critica alla consueta lettura storiografica delle scuole e delle tendenze artistiche che ordina tradizionalmente un museo, e dalla messa in discussione del diritto di un’istituzione pubblica di ordinare una gerarchia di valori e di dirigere la lettura di una storia che è costellazione benjaminiana di eventi e di possibili. Idee superate, anche, dalla consapevolezza acquisita che il museo di per sé è un’istituzione che estrae e isola l’opera d’arte dal contesto originario per cui era stata concepita, costringendone la comprensione nei limiti di uno spazio ideale, e dalla coscienza dei soprusi talora compiuti ai danni di altri popoli per procurare al patrimonio di una nazione testimonianze di altre culture e passati.
Il Trattato di Tolentino e il bottino francese
Ma ci sono alcuni temi del film di Sokurov -l’idea, appunto, di patrimonio, di museo luogo della democrazia, di cultura europea- che hanno preso la forma che oggi ci è familiare -forma che costituisce un fondamento, con tutte le contraddizioni qui accennate, della nostra idea di cittadinanza- in una circostanza storica precedente, che vide i francesi nel medesimo ruolo un secolo e mezzo dopo interpretato dai tedeschi. Si tratta della Campagne d’Italie di Napoleone, tra il 1796 e il 1797, conclusa dai trattati di Bologna e di Tolentino, le cui clausole imponevano, tra le altre cose, la cessione da parte dello Stato Pontificio di un ingente numero di opere d’arte di altissimo pregio come indennità di guerra. Opere selezionate dai commissari francesi, tra cui spiccano personalità molto volitive come Dominique Vivant-Denon, da destinare al nuovo museo del Louvre inaugurato nel 1793 con il nome di Muséum National. Un museo che, già ricco delle opere requisite dalle truppe francesi nel resto d’Europa e di quelle provenienti dalla nazionalizzazione in patria dei beni ecclesiastici (confiscati nel 1789 insieme con le collezioni reali, dell’aristocrazia in fuga e degli émigrées) aveva assunto connotati ideologici precisi basati su quella identificazione fra libertà civile e progresso delle arti teorizzata nel pensiero settecentesco e in particolare da Winckelmann, per cui la democrazia era stata la condizione imprescindibile del fiorire delle arti e del pensiero nell’Atene del V secolo avanti Cristo.
In questo quadro, la Francia, nuova Atene ed erede delle libertà democratiche, era dunque legittimata a rivendicare le migliori opere prodotte dal genio europeo, e anzi messianicamente incaricata dalla storia stessa di riunire e tutelare quello che viene, dunque, a configurarsi come “patrimonio culturale” nel senso moderno. Un patrimonio da consegnare ai cittadini per la loro educazione, per il loro accrescimento e per lo stimolo di un nuovo senso di appartenenza civica. Nei criteri di prelievo delle opere dall’Italia e nell’impostazione museografica, del resto, la nuova istituzione prende corpo sul terreno di una tradizione critica già consolidata costituita da Vasari, Bellori, Malvasia, Lomazzo, Passeri, Baldinucci (una tradizione che riconosce nell’antico e nelle tendenze classiciste dal Rinascimento al Seicento bolognese un dogma estetico) e del modello storiografico di Luigi Lanzi espresso nella sua Storia pittorica della Italia. E’ altresì importante notare che, con il museo così concepito, nascono anche il moderno pubblico di massa, socialmente e culturalmente differenziato ma unito nelle ricezione di un dato criterio di interpretazione estetica e di gusto, e il germe di un nuovo bene di consumo, quello culturale.
Il recupero delle opere d’arte italiane dopo l’avventura francese
Sul fronte dei vinti, è in questo momento e in quello dell’agognato rientro delle opere d’arte dopo il 1815, che nel contesto italiano, dinanzi alla questione della ricollocazione delle opere sottratte quasi vent’anni prima, viene a crearsi e si problematizza la contraddizione tutt’oggi irrisolta tra la musealizzazione dell’opera d’arte e il rapporto dell’opera d’arte con il contesto architettonico per cui era stata concepita, con il milieu sociale, religioso, umano dal quale è scaturita al momento della commissione, nel quale è stata accolta, recepita, riconosciuta. Sono stratificazioni di senso che non costituiscono solo la conoscenza delle circostanze storiche in cui un’opera nasce, ma un momento fondamentale della sua intuizione. Intuizione che è certo destinata a mutare nel tempo, e anche questo è un portato che si stratifica sull’opera, ma senza la cui consapevolezza questa è comunque mutila.
Musealizzazione e ricollocazione nel contesto, dunque, sono le due tesi che si trovarono opposte, difesa l’una da Antonio Canova (che del recupero del bottino francese era stato il campione), l’altra dall’antiquario Carlo Fea, il quale sulla traccia delle già note argomentazioni di Quatrémere de Quincy nelle Lettres à Miranda del 1796, così si esprimeva contro la presunta democraticità dell’istituzione museo: “Il Popolo stesso ha pur diritto di ammirare le belle cose al suo luogo pubblico per cui sono state fatte anziché cercarle con incomodo e spesa nelle Gallerie pubbliche o private; e così ne è egli a un tempo il custode e il vindice più geloso contro gli usurpatori; e coll’ammirarle si popolarizza l’amore, e il gusto per il bello in ogni classe di persone”, aggiungendo infine: “Tutta Roma è e deve essere una Galleria. Il suo insieme, e la molteplicità delle belle cose in ogni genere così disperse, è quello, che ne forma l’ammirabile, il seducente, il magnifico, l’unico bello al mondo, o il vero incantesimo”. Ma il modello prevalente di museo europeo era, ormai, quello enciclopedico e universale formalizzato nella Francia napo
leonica, e se le spoliazioni da parte delle truppe francesi erano state un sopruso sulle comunità locali italiane, questo sopruso sarà perpetrato al momento del recupero dagli stessi musei dei grandi centri di Milano, Venezia, Bologna e dello Stato pontificio, nell’ambito della generale tendenza di accentramento del potere ai danni della periferia.
La mostra
Questo interessante episodio storico, così denso di conseguenze e così importante tutt’oggi per pensare al rapporto tra arte e quella che chiamiamo, con espressione ormai frusta, identità culturale, è raccontato ora nella mostra Il museo universale. Dal sogno di Napoleone a Canova, nelle sale delle Scuderie del Quirinale fino al 12 marzo. Protagoniste sono le opere stesse trafugate dai francesi, tra cui il Ritratto di papa Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi di Raffaello (1517-18), La strage deli innocenti di Guido Reni (1611), la Venere Capitolina del II secolo d.C., insieme con capolavori di Perugino, Correggio, Andrea del Sarto, Federico Barocci, Agostino e Annibale Carracci, Guercino, Domenichino, Guido Reni, Tiziano, Veronese, Tintoretto. La mostra è corredata da un interessante catalogo edito da Skira con numerosi saggi che rendono conto dei diversi aspetti di questa vicenda nonché dell’animato dibattito nato allora intorno alle questioni qui ricordate. Ad ogni tela, ad ogni scultura, è legata la storia spesso travagliata del suo rientro in Italia, della sua ricollocazione, del significato che rivestiva nelle comunità locali a cui era stata sottratta e del nuovo valore assunto dopo il rientro.
Valore di exemplum virtutis per la loro eccellenza e bellezza, un valore morale e spirituale che Giacomo Leopardi nel 1818 metteva direttamente in relazione con il paesaggio, anticipando anche l’idea del museo diffuso: le opere dell’arte italiana “albergano qui fra noi beando gli occhi e gli animi nostri e quasi gridando ci esortano a emulare quei divini artefici nati da una stessa madre con noi che imitando questa natura e contemplando questo cielo e questi campi e questi colli a se medesimi acquistarono e alla patria mantennero nome e gloria più durevole dei regni e delle nazioni”. Se l’estrazione di capolavori artistici dai loro contesti originari è stata una lacerazione dolorosa e in molti casi mai più sanata, questa è stata anche l’occasione di una risemantizzazione delle opere stesse sottratte all’aura strumentale e religiosa da cui erano circonfuse nell’ancien régime (per entrare, del resto, in una nuova aura). Costituiscono, dunque, il patrimonio di tutti, che a tutti può parlare e di cui tutti dobbiamo essere custodi.
Il museo universale. Dal sogno di Napoleone a Canova
Roma, Scuderie del Quirinale – Via XXIV maggio n. 16
16 dicembre – 12 marzo 2017
A cura di Valter Curzi, Carolina Brook, Claudio Parisi Presicce
Biglietti: intero € 12,00 – ridotto € 9,50 – ingresso gratuito fino ai 18 anni
Per altre gratuità e riduzioni, visitare il sito
Orario: da domenica a giovedì dalle 10.00 alle 20.00 – venerdì e sabato dalle 10.00 alle 22.30
L’ingresso è consentito fino a un’ora prima dell’orario di chiusura
Catalogo Skira con saggi di Valter Curzi, Roberto Balzani, Claudio Parisi Presicce, Sergio Guarino, Carolina Brook, Luigi Gallo, Ilaria Mirelli Mariani, Michela di Macco e Maria Beatrice Failla, Sandra Sicoli, Giulio Manieri Elia, Fabrizio Magani e Luca Fabbri, Alberta Fabbri, Antonella Gioli, Ilaria Sgarbozza, Mario Scalini, Mario Guderzo.
(27 febbraio 2017)
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