Un segnale di buon senso

MicroMega

di Emilo Carnevali

La pipa di Paolo Pietrangeli, il completo alla grande Gatsby di Bertinotti, la guerra al Lambrusco decretata da Diliberto, i cori sovietici dei nostalgici dell’armata rossa, Luxuria sull’Isola dei Famosi, ecc.: raccontando i recenti congressi della cosiddetta “sinistra radicale” la grande stampa italiana si è soffermata quasi esclusivamente su questi particolari del folklore politico, giocando in maniera ancor più disinvolta (e velenosa) sulla già assai rodata “aneddotica da Transatlantico” che costituisce la parte ormai preponderante dell’informazione politico-parlamentare nel nostro disgraziato paese.
Del resto tutti coloro che hanno partecipato alla recente manifestazione di piazza Navona – avvenimento con una ben più corposa presenza di “testimoni diretti” rispetto ai congressi di partito – si sono resi conto molto bene di ciò che significa la “disinformacija di regime”.
Nonostante tutto, credo che il congresso al termine del quale Paolo Ferrero è stato eletto nuovo segretario di Rifondazione comunista rappresenti una svolta da salutare positivamente. Ancor prima che per questioni di merito e di linea politica, per un elemento che ha sottolineato Giorgio Cremaschi nel suo su micromega.net: si è trattato di un “vero congresso, e questa è la cosa più innovativa della tradizione comunista”. Un congresso che non si sapeva fin dal principio come sarebbe andato a finire e che ha visto sconfitto un candidato di notevole statura politica e appeal mediatico – Nichi Vendola – appoggiato da molti big della nomenklatura del partito, dal segretario uscente, dal quotidiano di partito Liberazione e dal suo direttore, da tutta la stampa democratica italiana, da ampi settori del Partito democratico, nonché da Fausto Bertinotti (leader di Rifondazione per 13 anni).
La distanza rispetto alle grandi liturgie pubbliche con investitura plebiscitaria del candidato unico (vedi primarie dell’Unione che hanno eletto Prodi o quelle del Pd che hanno portato Veltroni alla segreteria del Partito democratico) mi pare evidente, da salutare tanto più positivamente se si considera che si è trattato di una disputa “interna” ad un partito e – per sua natura – non aperta al contributo largo di cittadini comuni e società civile, e quindi ad una partecipazione meno coinvolta nei complessi e autoreferenziali equilibrismi del ceto politico. A questa valutazione positiva credo che nulla tolga una approfondita riflessione sulla crisi della “forma partito” in quanto tale, che pure si impone come ineludibile. Personalmente preferisco i toni accesi e perfino i duri scontri sulla linea politica, che i rituali da “democrazia popolare” in salsa post-moderna.
Questo Congresso si è consumato all’indomani di una sconfitta epocale: per la prima volta nella storia repubblicana le formazioni della sinistra non siedono in Parlamento. Il fatto che una linea così sonoramente sconfitta dalle urne perda a favore di un’altra idea di partito, mi sembra un segnale di buon senso prima ancora che di igiene democratica. Se questo fosse accaduto anche nel tormentato percorso del Pci-Pds-Ds-Pd (i cui vertici rimangono graniticamente al loro posto da ormai quasi vent’anni, impermeabili a qualsiasi sconfitta) la sinistra e la democrazia italiana ne avrebbero guadagnato certamente.
Paolo Ferrero e la sua mozione (al contrario di Nichi Vendola e della sua componente) hanno aderito alla manifestazione di piazza Navona contro le leggi canaglia approvate dal governo Berlusconi, insieme a tutte le principali organizzazioni di ciò che rimane della sinistra italiana (da Sinistra democratica di Claudio Fava ai Comunisti italiani, da Sinistra critica fino al Partito comunista di Marco Ferrando). E lo hanno fatto, a mio avviso, nella maniera più appropriata: rivendicando la necessità di tenere unite “questione sociale” e “questione democratica”, portando avanti la battaglia contro l’impunità dei potenti (e dei poliziotti torturatori, per i quali Antonio Di Pietro non ha voluto la commissione parlamentare di inchiesta) e quella per le nuove emergenze sociali, dalla precarietà alla drammatica questione abitativa, fino all’impoverimento di massa che sta ormai caratterizzando ampie zone del nostro paese.
C’è infine un passaggio del documento approvato dalla nuova maggioranza del Congresso che mi convince tanto più quanto più suscita le ire dei “riformisti ragionevoli” – come li chiama Pierfranco Pellizzetti nel suo recente, bellissimo libro “La quarta via. Una sinistra vera dopo la catastrofe” – ovvero di quei riformisti che concepiscono il “riformismo” come semplice “riposizionarsi” nel campo del vincitore (campo nell’accezione culturale e antropologica, naturalmente; il che non implica la fine di una contrapposizione tra “bande” ancora molto vivace e rumorosa). Mi riferisco a quel passaggio del documento in cui si legge che “l’esperienza di governo dell’Unione ha mostrato l’impossibilità, data la linea del Pd e i rapporti di forza esistenti, di un accordo organico per il governo del paese”. Mi pare una constatazione semplice ed ineccepibile, sulla quale riposano gran parte delle ragioni della catastrofe elettorale del 13 aprile. E mi pare che gli spazi per un “accordo politico” si sono ancor più ridotti con l’alleanza che sta prendendo forma tra il Pd e l’Udc, alleanza che considero del tutto naturale e che mi pare possa fondarsi su una sincera condivisione di programmi e visione strategica. Quanto alla partecipazione alle giunte regionali e locali, penso che la “questione morale” possa essere una bussola preziosissima per orientare il comportamento che debbano tenere, valutando caso per caso, Rifondazione comunista e le altre forze della sinistra.

(29 luglio 2008)



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