Un vaccino liberale per l’ideologia liberista
Egregio Direttore,
stiamo vivendo in un periodo storico dove le libertà ed i diritti individuali sembrano un lusso insostenibile. Politici, opinion leader, finanzieri ed economisti ci stanno martellando con la tesi che nell’attuale periodo di crisi economica i diritti individuali sono un lusso insostenibile, che le democrazie avanzate per salvarsi devono rendere concorrenziali il loro costo del lavoro con quello delle economie del terzo mondo: la dottrina Marchionne nei confronti dei lavoratori della FIAT è solo la ennesima applicazione di questa vulgata.
Peccato che l’esperienza storica, dal secolo scorso in poi, dia costantemente una realtà ben diversa, anzi quasi opposta. Tutte le volte che gli Stati occidentali (Europa ed America) ed i loro regimi politici hanno abbandonato il pensiero liberale dei diritti e delle responsabilità individuali, della separazione e del controllo reciproco dei poteri a favore di “pensieri forti” che hanno monopolizzato l’azione politica, ciò si è sempre tradotto in un brusco arretramento della loro posizione economica e geo-politica sullo scacchiere mondiale. La cultura liberale si è dimostrata il miglior vaccino per un buon funzionamento della politica e dell’economia contro soprusi ed inefficienze di entrambi.
Le moderne democrazie occidentali sono nate dal compromesso tra due pensieri politici storicamente contrapposti: il radicalismo democratico ed il liberalismo politico (da non confondere con il liberismo economico) riassunti esemplificatamente da Rousseau e Locke. L’uno e l’altro si sono rivelati indispensabili al moderno Stato democratico: i principi di eguaglianza (del primo) e di libertà (del secondo) si puntellano, controllano e compensano a vicenda.
Infatti il pensiero liberale, incarnato dagli Stato liberale dell’ottocento (fanno eccezione le precedenti esperienze inglese ed americana) si sono rivelati elitari, dove lo stesso diritto di voto era un privilegio per pochi, solitamente i ceti economicamente più abbienti che decidevano per tutti; non è superfluo ricordare che in Italia il suffragio universale maschile (diritto di voto) arriva solo nel 1913 (alle porte della prima della prima guerra mondiale) e quello femminile subito dopo la seconda guerra mondiale. Il principio democratico dell’uguaglianza ha fatto il suo trionfale ingresso nelle istituzioni storiche (se si prescinde il periodo del terrore di Robespierre) nel novecento avendo anch’esso un grosso limite, quello di farsi facilmente strumentalizzare dai fondamentalismi di turno. Infatti il primato della legge, motivato dalla presunta uguaglianza di tutti i cittadini al suo cospetto, ha fatto si che la legittimazione popolare delle leggi legalizzasse regimi liberticidi e dittature delle maggioranze sulle minoranze. O ancora più paradossalmente, grazie all’astensionismo ed a leggi che attribuiscono generosi premi di maggioranza in Parlamento a minoranze di votanti economicamente forti e compatte, ha legittimato per legge limitazioni ideologiche e/o confessionali particolaristiche ai diritti individuali di tutti. Nella concreta esperienza il pricipio democratico ha legittimato politiche di guerra, partiti unici, leggi di discriminazione razziale e/o sociale, privilegi legalizzati ad personam o a favore di lobbies.
Viceversa, gli Stati che hanno saputo coniugare questi due principi hanno goduto di prosperità economica, pace e progresso, e hanno mantenuto la loro coesione sociale anche nei momenti più difficili. I principi della supremazia della legge, dell’uguaglianza di tutti i cittadini al suo cospetto, la garanzia dei diritti individuali (primi fra tutti di pensiero, di stampa e di voto), la limitazione e la divisione dei poteri, la pluralità dei partiti e la tutela delle minoranze costituiscono un unicum di una diffusa cultura di cittadinanza, senza che ci si ponga il problema da quale di questi due filoni del pensiero politico provengano. Ma conoscerne la genesi è indispensabile per capire fronteggiare l’attacco che viene portato allo Stato di diritto liberal-democratico.
La più antica delle moderne minacce allo Stato liberal-democratico è stato il nazionalismo, che strumentalizzando il principio democratico con l’uso della demagogia propagandistica, ha ottenuto la legittimazione popolare per politiche belliciste che hanno provocato il primo collasso politico-militare all’Europa.
All’inizio del Novecento, proprio quando il progresso tecnologico offriva enormi prospettive di sviluppo ed il compito della politica sembrava più agevole (la “belle èpoque” ne simboleggiava l’essenza) è esplosa la prima guerra mondiale. Il nazionalismo, facendo perno sui progressi della tecnica che davano nuove prospettive all’arte militare, imponeva la guerra e l’espansionismo come assoluta priorità politica per il progresso delle nazioni.
La Germania fu il più eclatante esempio di questa politica nazionalista, i successi militari ed il travolgente sviluppo industriale erano andati di pari passo al rapido processo di riunificazione politica. Fra l’altro anche la creazione del primo welfare state (che è di destra) permise al nazionalismo tedesco di conquistare il consenso popolare. Oggi, nell’epoca post-comunista delle democrazie liberiste, l’assenza di un vaccino liberale ha nuovamente permesso la tacita legittimazione e/o tolleranza di sanguinose guerre etniche ispirate dal medesimo cancro nazionalista nell’ex Yugoslavia e il ritorno di storiche tensioni in tutti i Balcani. L’estensione incondizionata a Est, in nome del libero mercato, dell’Unione Europea rischia di far accentuare la recrudescedenza di questo mortale virus che già spacca al loro interno Stati come la Spagna e il Belgio ma anche l’Italia (sotto la foglia di fico del federalismo). Un caso a se sono i genocidi che travagliano l’Africa, trattati dai mass-media a rango di periodici disastri naturali a cui nulla si può opporre.
I disastri causati dal nazionalismo dalla Prima guerra Mondiale avrebbero spianato la strada ad altre due ideologie illiberali: il comunismo marxista-leninista ed il fascismo.
Le sconfitte militari nel pieno della guerra avevano fatto collassare la Russia zarista avviando una sanguinosa guerra civile che avrebbe portato alla nascita di un nuovo modello di Stato a socialismo rivoluzionario. Il marxismo-leninismo individuava la radice di tutti i mali della società nel sistema capitalista e nell’oppressione di classe: il suo superamento ne era la panacea La rigida dittatura (propagandata come proveniente dal proletariato, cioè auto imposta dalla classe operaia su se stessa), il partito unico e la spietata repressione di tutte le libertà erano spacciate come un onesto prezzo da pagare per il raggiungimento di una futura mitica società socialista. La propaganda mascherò con le conquiste sociali, le sanguinose purghe di una élite politica affamata di potere. Formalmente il fine della difesa della libertà fu dichiarato obsoleto e sostituito da quello del soddisfacimento dei bisogni materiali del popolo. Ma uno Stato illiberale è anche uno Stato dove un potere incontrollato prospera nell’inefficienza e alla lunga non è in grado di reggersi, pur contando su enormi risorse naturali: il crollo dell’URSS non rappresenta certamente un evento sorprendente. Però il “pericolo” comunista fu benzina per nuove, opposte, ideologie illiberali del resto d’Europa.
In Italia la rotorica nazionalista-post bellica della vittoria mutiltata, il malessere economico assieme al paventato pericolo comunista furono l’humus ideale che consentì ad un ambizioso Benito Mussolini, dotato di finissimo fiuto politico,
di inventare un nuovo movimento politico autoritario: il fascismo.
Mussolini seppe appropriarsi del nazionalismo che aveva in D’Annunzio la sua estrosa guida, fondendolo con la rabbia repressa dei reduci di guerra e le paure degli industriali nei confronti del “pericolo socialista”. Così un’ex socialista, difensore dei diritti operai, pacifista, internazionalista e anticlericale, diventò garante degli industriali e manganellatore degli operai, militarista, nazionalista e sottoscrisse uno storico trattato con lo Stato Vaticano di quel Papa-Re che a lungo si era opposto all’unità d’Italia ed era in rotta con lo Stato italiano risorgimentale. Sostanzialmente, con i Patti Lateranensi, il nuovo regime fascista e lo Stato Vaticano (entrambi nemici, per varie ragioni, dello Stato e del pensiero liberale) si legittimavano a vicenda sulle rovine di un debole Stato (ormai ex) liberale e di una monarchia pavida.
Lo Stato-Chiesa otteneva dal dittatore Mussolini sostanziosi indennizzi economici, generose esenzioni fiscali e il riconoscimento della religione cattolica come religione di Stato, il fascismo il tacito silenziamento dell’opposizione cattolica al regime, così anche illustri sacerdoti antifascisti furono senza troppo clamore spediti al confino (don Sturzo) o manganellati. Il tutto in un contesto di assassinii degli oppositori politici in Italia (Giacomo Matteotti) ed all’estero (i fratelli Rosselli), di discriminazione mirata nei confronti di parte del popolo (leggi razziali) e l’uso strumentale della politica estera a fini espansionistici (guerre coloniali) e destabilizzatici di altri Stati sovrani (guerra di Spagna). Al pari del socialismo rivoluzionario, da cui proveniva, Mussolini si preoccupò di compensare la soppressione delle libertà individuali con il soddisfacimento dei bisogni materiali del popolo con una forma di “welfare state” e sostenendo le imprese italiane nella crisi del 1929, inventando le partecipazioni statali (IRI).
E’ interessante soffermarsi sul fascismo per due ragioni. La prima che esso diventò un modello per un Adolf Hitler in ascesa e per tutti i dittatori fino ai nostri giorni (Pinochet, Saddam Hussein e Gheddafi non ne sono che gli epigoni). La seconda che avviò in Italia una nuova epoca storica segnata dal ritorno dell’ingombrante ingerenza politica dello Stato del Papa-Re. Un rapporto asimmetrico fra uno Stato che interferisce costantemente ma che non tollera interferenze o critiche. Uno Stato, il Vaticano, che ha stabilito solide intesa politiche con discusse (e discutibili) figure politiche (tutte curiosamente con un trascorso socialista): Mussolini, Craxi e Berlusconi.
Sappiamo che il fascismo e il nazismo portarono al disastro della seconda guerra Mondiale ed alla sostanziale spartizione dell’Europa in due blocchi, uno che conservava o recuperava (nel caso di Italia e Germania Ovest) l’impronta liberal-democratica, l’altro incatenato al modello comunista. Lo scontro tra la Nato (guidata dagli USA) e il Patto di Varsavia (guidato dall’URSS) è stato il canovaccio storico della terza guerra mondiale (1945-1989), la cosiddetta “guerra fredda” combattuta sottotraccia poiché le armi atomiche avrebbero potuto portare ad una totale distruzione reciproca (M.A.D.). Tale guerra è stata combattuta e vinta dall’Occidente grazie ad un sistema politico che ha saputo coniugare libertà ed eguaglianza, che ha mantenuto saldo il principio di responsabilità nei confronti di tutti: singoli cittadini e governanti, lavoratori e industriali. Questo esteso sistema liberale di garanzie, di controllo diffuso contro i soprusi indviduali e sociali, ha mantenuto efficiente sia il sistema economico che quello politico e consolidato lo spirito di appartenenza della gran parte dei cittadini, ciò fino al 1989.
L’anno 1989 è stato l’anno della svolta, simboleggiato dalla caduta del muro di Berlino e dalla fine del comunismo ma anche della sanguinosa repressione delle istanze di libertà in una altro grande paese comunista, la Cina, culminata nella strage di Piazza Tien an Men ma anche nell’apertura di quel Paese agli investimenti occidentali. E’ bastato scambiare la repressione delle libertà politiche con la concessione della libertà economica (con manodopera a basso costo e zero conflitti sindacali) per fare della Cina l’Eldorado del capitalismo. Utilizzando il paragone economico della cattiva moneta che scaccia quella buona, le sacrosante critiche liberali alla Cina comunista sono state soppiantate dalla legittimazione economica liberista tanto da delocalizzare in quel Paese gran parte del sistema produttivo mondiale (svuotando dall’interno le democrazie occidentali della forza economica del loro apparato industriale) e farne un grande protagonista dei nostri tempi e il futuro padrone della storia mondiale. L’attuale assetto ed i nuovi equilibri della politica mondiale partono da qui. La caduta del comunismo ha portato alla globalizzazione (il mercato senza confini e regole), alla esportazione nella migliore delle ipotesi di una democrazia liberista, dove la conta dei voti è servita per legittimare il dittatore o l’etnia egemone di turno. Dove il grande manager strapagato invece che fare una vera politica industriale, si limita a contrattare il prezzo del lavoro più basso e la speculazione finanziaria più redditizia.
La “mano invisibile” del mercato, la magica panacea (equivalente alla lotta di classe dei marxisti) dei liberisti, si è tradotta in una assoluta irresponsabilità di coloro che vi operano, dove all’ombra dei paradisi fiscali tutte le operazioni sono lecite comprese i riciclaggi delle grandi mafie. Ai lavoratori licenziati, ai risparmiatori truffati, ai consumatori ingannati non resta che prendersela con questa inafferrabile ma onnipotente presenza: il mercato. L’idolatria liberista, tutt’ora imperante, è servita solo a mascherare condotte inefficienti, irrazionali e truffaldine, scaricandone i costi sulla collettività all’insegna della tradizionale pubblicizzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti. Anche per l’azione economica urge ristabilire il principio liberale del legame indissolubile tra libertà e responsabilità, il principio della responsabilità deve valere anche per la libertà economica che è una delle libertà (non la libertà), e non può più essere il moloch al quale sacrificare ciecamente il presente e il futuro dei nostri Paesi. Se si ha la forza di liberarsi subito della tossica ideologia liberista, forse non è ancora troppo tardi per somministrare il vaccino liberale.
Giuseppe Dalmazio
(12 gennaio 2011)
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