Una goccia nell’Onda
Cara Micromega,
sono una giovane studentessa di vent’anni che vi legge sempre con passione – sia in versione cartacea che telematica. Ho partecipato con gioia alla manifestazione da voi indetta l’otto luglio scorso, mentre ho disertato quella del PD del venticinque ottobre. Le mie fonti di informazione sono varie ed eterogenee, ma le mie preferite restano indubbiamente i siti di Camera e Senato, e la Gazzetta Ufficiale. Non ho avuto un’educazione civica, tranne che dalla satira e da qualche cane sciolto. Si può dire che anch’io, come mio padre, segua le idee di Marx: Groucho, stavolta. E – nel crogiuolo di idealismi e demagogie odierne, residui di socialismo, un capitalismo zoppicante – ho un solo punto fermo, e lo canto con Gaber: libertà è partecipazione.
E forse è questo il problema. Mio, e delle migliaia di miei coetanei che stanno scendendo in piazza in questi giorni.
Abbiamo occupato la facoltà, ma solo per avere uno spazio serale in cui discutere e stare insieme; la mattina riapriamo i cancelli e lasciamo passare studenti e professori, offrendo "un cornetto e un volantino" per sensibilizzare quelli che ancora si mostrano tiepidi alla nostra protesta – senza imporlo. Guardando i poliziotti, ci sale alla coscienza che, in fondo, siamo sulla stessa barca. Ci riuniamo continuamente, forsennatamente, e formiamo gruppi di studio che non dovrebbero esistere in un paese normale: in un paese normale, non dovrebbero essere i ragazzi al secondo, terzo anno di università quelli che passano ore su una finanziaria per proporre alternative ad un’azione scellerata e senza senso come i tagli drastici all’istruzione pubblica. Non dovrebbero essere loro a studiare i bilanci dello stato, i resoconti delle Camere, a collezionare articoli di giornale e saggi, inchieste, per cercare di mettere insieme i pezzi di un mosaico che solo da intero assume i contorni terribili e maestosi che ogni suo frammento suggerisce.
Forse non dovrebbero, non dovremmo. Ma lo facciamo lo stesso. Ed eccolo qui, il famoso problema: non l’essere dei fannulloni sfaccendati e impigriti dalla tivvù, non l’essere dei nichilisti senza ambizione alcuna, non l’essere adepti della religione dell’apparenza; ma proprio il non esserlo.
Se questa legge dovesse passare, la mia famiglia spenderebbe cifre esorbitanti per farmi terminare l’università in pace e darmi un pezzo di carta che sul mercato del lavoro non varrà niente – anzi, mi sentirò forse dire che "sono troppo qualificata", tanti saluti e grazie. Nel mio tentativo disperato di, non dico essere indipendente!, ma anche solo aiutarli economicamente inizierò a barcamenarmi fra lavoretti precari e sottopagati, che all’inizio mi sembreranno anche stimolanti, finché non mi renderò conto che presto diventeranno la norma, l’unica strada. Qualora volessi proseguire nella carriera universitaria, nel mio paese non troverei alcuna via accessibile, e sarei costretta o all’esilio, o alla rinuncia. Allora, volendo crescere i miei figli nella terra dove io stessa sono cresciuta, inizierei ad accontentarmi, e accetterei contratti a tempo sempre più determinato, perché intorno a me la distruzione della ricerca libera e indipendente avrebbe portato le aziende italiane ai minimi storici di produttività, mentre il licenziamento massivo di dipendenti pubblici avrebbe reso la concorrenza spietata e inferocita, aumentata peraltro dalla disoccupazione crescente che seguirebbe al tracollo della piccola e media impresa, alla scelta consapevole di preferirle banche, banchieri e aereoplani tricolori.
E così imparerei a programmare il mio futuro sulla misura dei miei impieghi precari: un mese, sei mesi, un anno… Incapace di pensare alla costruzione di una famiglia senza un senso pressante di angoscia, qualora dovessi rimanere incinta e – seguendo i dettami di Santa Madre Chiesa – non abortire, maledirei il bambino per avermi fatto perdere quel contratto di ben due anni che avevo faticosamente strappato al mio datore. Ma proverei a crescerlo lo stesso, mio figlio, mandandolo in quella scuola dove una sola maestra gli insegnerà a pensare in un modo soltanto, dove i diversi saranno banditi e la cerchia dei normali difesa a spada tratta, mentre un professore di liceo – più avanti – lo minaccerà brandendo un cinque in condotta per aver osato capeggiare una protesta contro il dirigente scolastico, di modo che possa imparare che l’unica libertà che possiede è quella di applaudire all’autorità, o tacere. E non potrei mandarlo all’università, perché la sua privatissima retta sarebbe troppo alta.
Fin qui, sopravviverei. Ma come potrei spiegargli che il suo futuro sarà identico al mio presente, senza alcuna possibilità di riscatto? Che i miei – e quindi suoi – ostacoli sociali non potranno mai essere rimossi, da nessuno, e che sarà destinato a ripercorrere pedissequamente le mie orme, come nei "bei tempi andati". Forse allora, e solo allora, cederei: mi tessererei al partito. E gli troverei un lavoro prostrandomi ai piedi di chiunque – ma proprio chiunque – fosse disposto a offrirglielo.
Se avessi seguito abbastanza Canale5, questi catastrofici scenari non mi verrebbero certo in mente. Del resto, io appartengo a quella generazione che a cinque anni sapeva a memoria l’inno di Forza Italia perché – ahimè! – guardava i cartoni animati sul sei. Com’è stato possibile risvegliarsi da quel coma programmatico, quasi scontato, che da lì in poi avrebbe dovuto assorbire ogni mia capacità senziente?
Non lo so, non ne ho idea. E non ne ha idea neanche l’opinione pubblica; e nemmeno Berlusconi, che per questo non capisce, per questo si irrita e fa la voce grossa.
Ma non posso più distrarmi, ormai. E, come me, non lo possono gli altri giovani che scendono per le strade, fra la gente, a spiegare i motivi del loro lottare. Che non sono ideologici, non sono politici, ma sono in primo luogo pratici; in secondo, esistenziali; e in terzo, ma non ultimo, di principio.
Comunque vada, noi non dormiremo più. L’anestesia quotidiana a cui ci hanno sottoposto, ci ha assuefatti a tal punto da renderci immuni. La realtà si svela limpida e lampante attorno a noi, e noi con quella – solo con quella – siamo ormai disposti a confrontarci.
Non so come andrà a finire; forse bene, forse male. Starò a vedere e continuerò a partecipare, anche solo per smettere il più tardi possibile di essere libera. Ma ho scritto questa lettera perché, al di là delle conclusioni, non voglio far dimenticare – a me e a nessun altro – quali siano stati gli inizi. Per comunicare a voi, e ricordare a me stessa, che non è per moda, né per utopie, né per vaghe speranze di rivoluzione: ma più semplicemente è che così, e solo così, la mattina trovo il coraggio di guardarmi allo specchio.
Con ammirazione e rispetto,
un saluto affettuoso
Gaia Benzi
(26 ottobre 2008)
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