Una missione internazionale in Siria? Le ragioni del sì

Fernando D'Aniello

Il ritiro delle forze americane dalla Siria pone l’Europa di fronte alla necessità di ripensare la sua politica estera, contemplando anche l’ipotesi di interventi militari sotto l’egida dell’Onu, come diventa sempre più urgente in Siria. Che il diritto internazionale sia ancora in uno stadio ‘primitivo’ non è, infatti, una buona ragione per tornare ai puri e semplici rapporti di forza.

L’operazione militare turca nel Nord-Est della Siria non è conclusa. La Turchia ha motivato sia l’intervento del gennaio 2018 nella regione di Afrin sia quello in corso, avviato nell’ottobre 2019, ricorrendo all’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, vale a dire al diritto di autodifesa.

Tuttavia, l’evidente sproporzione tra la presunta minaccia ‘terrorista’ di diverse organizzazioni curde, della quale il governo di Ankara non ha mai prodotto prove sufficienti, e l’operazione militare, come pure l’annessione di fatto di un’ampia porzione di territorio siriano escludono che entrambi gli interventi possano essere considerati legittimi secondo le norme internazionali, al contrario devono essere considerate una vera e propria aggressione vietata dall’art. 2 commi 3 e 4 della Carta delle Nazioni Unite.

L’attacco turco comporta quantomeno tre conseguenze. Innanzitutto, la fine dell’esperienza democratica nel Nord-Est del paese o la sua riduzione a un fazzoletto di terra nella parte più orientale della Siria, a ridosso del confine con l’Iraq. Secondo: il previsto rientro di profughi siriani determinerà l’ennesimo esperimento di ingegneria demografica a danno della comunità curda, sino a una possibile pulizia etnica. Già ora migliaia di profughi sono fuggiti verso l’Iraq e lo stesso governo siriano è preoccupato dall’insediamento nel suo territorio di persone politicamente ostili, persino vicine a organizzazioni estremiste. In futuro non è da escludere un aumento della tensione tra il governo di Ankara e quello di Damasco. Infine, l’intera vicenda si riduce ad un accordo tra Stati gestito dalla Russia, senza nessun tipo di legittimazione internazionale. Tutto questo, ai confini dell’Europa, incapace di una propria strategia, nonostante l’evidente impatto (ad esempio con l’arrivo di milioni di profughi) del collasso della Siria nella sua politica interna.

Da parte tedesca è stata proposta una missione internazionale sotto mandato ONU, che possa sostituirsi alle milizie attualmente sul territorio, preoccuparsi di assicurare alla Turchia la sua richiesta di maggiore sicurezza sul confine meridionale, gestire il ritorno dei profughi e proseguire il disarmo delle milizie irregolari.

La proposta ha sollevato nella stessa Germania molte polemiche, soprattutto per le divisioni all’interno della grande coalizione che governa a Berlino: l’idea di una forza internazionale è della ministra della difesa nonché presidente della Cdu Annegret Kramp-Karrenbauer, si è invece dichiarato contrario il ministro degli esteri, il socialdemocratico Heiko Maas. È noto che in Germania l’invio di soldati tedeschi in missione all’estero è questione controversa: decisamente rifiutata a sinistra, è stata negli ultimi anni disciplinata, tra gli altri, dal Tribunale costituzionale federale che ha stabilito la legittimità degli interventi militari all’estero a precise condizioni.

Chi scrive è convinto che la proposta meriti di essere approfondita, discussa e messa in atto. Sono comprensibili le ragioni che spingono la socialdemocrazia tedesca come pure gran parte del mondo pacifista a guardare questa soluzione con diffidenza se non con aperta ostilità. Tuttavia, non va dimenticato che la crisi nel Nord della Siria è stata innescata dal ritiro – parziale – delle forze statunitensi. Un ritiro che acquista anche un valore simbolico: gli Stati Uniti non hanno più intenzione di sopportare i costi della sicurezza comune e scelgono le loro priorità sulla base dei propri interessi nazionali. Non si tratta di un’affermazione scontata, ma della definitiva consacrazione di una politica unilaterale avviata nel 2001. Oggi, il Presidente Trump ha chiarito come le truppe americane non saranno impiegate per tentare di risolvere conflitti secolari, come quello tra turchi e curdi. E ha scelto di lasciare i secondi alla mercé dei primi.

Il ritiro americano – che mette in crisi anche il pacifismo perché la stessa presenza delle truppe statunitensi presentava profili di illegittimità – obbliga l’Europa a riconsiderare le parole della cancelliera Angela Merkel subito dopo l’elezione di Donald Trump: «Il tempo in cui potevamo affidarci completamente agli altri è passato. Noi europei dobbiamo combattere per il nostro futuro». Questo significa innanzitutto comprendere che l’Europa ha un interesse strategico a stabilizzare i propri confini. E, poi, a costruire relazioni nuove, segnate non da logiche imperialiste ma dalla fiducia e dalla solidarietà. In particolare, con il Medio Oriente dove giovani uomini e donne intendono imprimere una svolta vera a regimi di cui non si sentono parte.

Non si tratta quindi ‘solo’ di difendere il Rojava, ma anche di trovare modalità nuove di intervento in contesti in cui vengono concretamente sperimentate forme di democrazia e partecipazione. È giunto il momento per l’Europa di sviluppare politiche complessive che contemplino anche l’opzione militare. In particolare contro la tesi, oggi sempre più diffusa, di una ‘inutilità’ del diritto e delle organizzazioni internazionali, occorre ribadire come solo la loro evoluzione e il loro potenziamento potrà assicurare la risoluzione il più possibile pacifica delle controversie internazionali.

Perché una forza di sicurezza in Siria sia il primo passo in questa direzione, c’è bisogno di un accordo al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Perché essa si pone l’obiettivo di definire un’idea delle relazioni e del diritto internazionali diversa, alternativa a quelli del presidente Trump e del sovranismo oggi apparentemente vincente: che il diritto internazionale sia ancora in uno stadio ‘primitivo’, come giustamente ripetono anche i giuristi, non è, infatti, una buona ragione per tornare ai puri e semplici rapporti di forza.

Il passaggio al Consiglio di Sicurezza è necessario anche per coinvolgere la Russia, i cui interessi in Medio Oriente non sono necessariamente opposti a quelli europei. L’Europa potrebbe così, finalmente, tornare a occuparsi anche della ricostruzione: accettando di discutere con il governo di Damasco, si potrebbe spingere per un ritorno, volontario, dei profughi oggi in Turchia e per una soluzione costituzionale federale che tuteli le minoranze e premi gli sforzi fatti nel Rojava verso la democrazia e la convivenza di nazionalità diverse. E, così facendo, rassicurare la Turchia sul fronte meridionale, circostanza che nel medio periodo potrebbe anche condurre ad una soluzione della questione curda in Turchia.

Occorre modificare completamente le categorie che abbiamo utilizzato sino ad oggi: solo una nuova politica estera, che certo non dimentichi le responsabilità europee nei tanti conflitti prossimi o meno ai nostri conflitti, potrà dare concretezza alle aspirazioni di pace e giustizia sociale che animano le giovani generazioni. In questo senso, una forza internazionale in Siria potrebbe essere il primo passo in questa direzione e l’Italia dovrebbe essere al fianco della Germania, anche perch&eacu
te; proprio il nostro paese ha dimostrato, in passato, di gestire con una certa efficacia simili sfide. E, soprattutto, una soluzione internazionale, negoziata e bendisposta verso tutte le nazioni e le etnie che vivono in quell’area, potrebbe anche migliorare la nostra relazione con milioni di musulmani che negli ultimi decenni abbiamo più volte tradito.

(22 novembre 2019)





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