Una parola del tempo: “interlocuzione”

Nunzio La Fauci



È in corso un’interlocuzione con Bruxelles…”, si è letto e sentito dire, mesi fa, in sedi ufficiali a proposito di trattative tra il governo italiano e le istituzioni europee. E con la crisi in atto, tra le forze politiche impegnate a dare alla cosa pubblica italiana una nuova guida, sarà tutto un fiorire di interlocuzioni.

Dialogo non piace più e non da ieri, naturalmente. Fu parola-emblema della seconda metà del Secolo breve e quel periodo suscita ormai da tempo una sorta di disgusto, fuori degli umori cupamente nostalgici alimentati, tra gli anziani (in spirito), da scopi commerciali. Per chi segue la politica italiana, dialogo suona del resto come parola tipica dei tempi della cosiddetta e spregiatissima Prima repubblica. Allora e almeno dalla fine degli anni Cinquanta, quasi tutto s’era prima lentamente, poi decisamente orientato al dialogo e dialogo imperversava, nel discorso pubblico, ma anche nel privato.

Dopo la Guerra fredda, s’era messo in moto il dialogo tra le grandi potenze; c’era poi il dialogo inter-religioso che, forse, ancora continua; c’era una politica del dialogo: in una prima fase, tra Democristiani e Socialisti, conclusosi con un ingresso di questi ultimi “nella stanza dei bottoni”, in una seconda fase, tra Democristiani e Comunisti, sfociato addirittura in un “compromesso”, di breve durata ma nobilmente “storico” (niente roba da bottegai, come dice “contratto”); c’era una teologia del dialogo; era auspicato il dialogo tra padri e figli (allora solo poche contestavano questi maschili ideologici) e si diceva necessario il dialogo tra coniugi, come il dialogo tra le culture, favorito da una generale cultura del dialogo; c’era il dialogo tra laici e cattolici; c’era la scuola del dialogo, in cui si praticava o ci si augurava si praticasse il dialogo tra famiglie, discenti e docenti, e, ipotetico, il dialogo tra cittadini e istituzioni. In un momento che più critico non era immaginabile, ci fu addirittura chi propose si aprisse un dialogo con le Brigate rosse, foriero di un’eventuale trattativa, e chi respinse la proposta, ma non perché rifiutasse la parola e, restando la cosa eguale, ne preferisse un’altra. Insomma, dialogo condiva tutte le pietanze e incontrava il gusto dei più. A dirlo o a udirlo dire, si sentiva di procedere nella direzione della corrente.

Poi, di botto, la corrente mutò direzione e dialogo cominciò a non suonare più bene. Oggi, in certi contesti, proferire dialogo è come andare in giro con un pantalone alto sulla vita o con una giacca che copre il deretano: non usa e non si fa, se non si vuole apparire obsoleti. Guai, soprattutto, a parlare di dialogo nei giri politici che contano. Ed è così che come un’erba infestante si è diffusa interlocuzione, una parola ripescata dai contesti appartati dove fino a pochi decenni fa viveva, molto modestamente: a chi praticava la lingua del sì poteva bellamente capitare di vivere tutti i suoi anni e di abbandonare il mondo senza averla incrociata una sola volta. Nel cambio, un latino da loici ha preso il posto di un greco divenuto, nei secoli, di tutti i giorni. Cosa ha favorito il successo di interlocuzione?

Intanto, il fatto che interlocuzione è più lunga di dialogo. Quanto a sillabe, il doppio. Interlocuzione è parola perfetta dunque per allungare il brodo in un’epoca in cui, a parte insultare, nel discorso pubblico pare si possa fare poco altro: le idee sostanziali latitano e le parole brevi e semplici sono guardate con sospetto.

Poi, interlocuzione suona da termine, da elemento di una lingua specialistica, e non da parola qualsiasi, com’è ormai dialogo. Fu Giacomo Leopardi, come si sa, a osservare la differenza tra termini e parole. In certi ambienti e rivolto a un certo pubblico, un termine, al posto di una parola non guasta mai. A buon mercato e anche se di politica non si capisce un’acca, ci si fa figura di persone del mestiere, in barba alla fola che di politici di mestiere la gente non vorrebbe più sentire parlare.

Infine, interlocuzione riduce all’atto o agli atti di interloquire la disposizione a dialogare. Questa potrebbe anche essere generica. Potrebbe addirittura essere ampia e (non sia mai!) orientata anche all’ascolto. “Stiamo interloquendo” ed ecco subito “piantati i paletti”, come si dice adesso (ma di “piantare i paletti”, altra espressione del tempo, caso mai, ci si occuperà un’altra volta).

Lungo questa linea, lungo la linea fissata dai “paletti”, interlocuzione è così divenuta espressione eufemistica (capita talvolta ai tecnicismi, specialmente se apparenti). E se c’è eufemismo, c’è sotto un tabù. Una volta che ci si sia fatti attenti e consapevoli, nell’esempio menzionato in esordio il tabù salta agli occhi. Dialogo con le istituzioni europee? Non sia mai! Ci si confronta (duramente), si ha appunto in corso un’interlocuzione (impegnativa). E un tabù ci sarà sotto i molti esempi di interlocuzione che, se ne può stare certi, ci riserverà la cronaca politica nei prossimi giorni. Forze politiche che, fino a ieri, hanno detto di spregiarsi reciprocamente, apriranno infatti interlocuzioni. Che, tra loro, ci sia un dialogo non si può, non si potrà dire. È un tabù. Forse giustamente.

(23 agosto 2019)

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