Una sessualità di servizio

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di Lea Melandri, da zeroviolenzadonne.it

L’infervorato dibattito che si è sviluppato intorno alle durissime prese di posizione di Veronica Lario nei confronti di Berlusconi, nella sua duplice veste di uomo di Stato e marito, fa capire meglio anche una delle ragioni per cui la sequenza ininterrotta di violenze contro le donne -stupri, omicidi, maltrattamenti- sparisce nel grigiore indistinto della dose quotidiana di cronaca nera. Benché siano affiorati commenti più complessi, sullo spostamento dei confini tra sfera privata e sfera pubblica, la tentazione di cancellare l’effetto dirompente di una critica al potere, ‘fuoriuscita’ dalle mura domestiche, ha preso la strada più ovvia e più prevedibile: “i panni sporchi si lavano in famiglia”, “tra moglie e marito non mettere il dito”, tradotto più elegantemente da Barbara Spinelli (La Stampa 6.5.09) nella separazione classica tra casa e pòlis -“Si vorrebbe dal politico la fuoriuscita dall’abitazione privata, il suo spostarsi nell’agorà dove il privato non entra ma viene pudicamente lasciato in anticamera, come il cappotto che attacchi al gancio quando ti metti al lavoro”.
Divorato dal privato, o mai sfiorato dall’idea del pubblico, Berlusconi avrebbe coltivato la rovinosa fusione dei due campi, mosso dal vento che negli anni ’70 spirava in culture diverse, ma soprattutto nei movimenti dei giovani e delle donne femministe. Su questo -dice sempre Spinelli- avrebbe poi costruito “il suo distorto immaginario politico”, la sua politica da “monarca dell’ancien régime”.
La “conversazione cittadina” deve restare, come sosteneva Aristotele, uno spazio separato e ristretto, quel fondamento di civiltà “che i barbari non possiedono”. L’ondata di nuovi ‘barbari’ che si è affacciata all’Occidente negli anni ’70 -in particolare figure femminili ribelli a steccati e precetti antichi-, affermando che privato e pubblico sono la stessa cosa, avrebbe perciò contribuito all’effetto nefasto di far morire la politica. Colpisce, in questa interpretazione, il fatto che la critica alla separatezza della politica, alle astrazioni che ha prodotto storicamente, contrapponendo come poli complementari -e quindi spinti di necessità alla riunificazione- maschile e femminile, biologia e storia, individuo e società, sia stata vista non in chiave di apertura e allargamento della politica stessa per tutta quella parte dell’umano che ha confinato nella ‘persona’, nel quotidiano, nell’interno delle case, ma come la sua fine.
Nonostante che lo slogan “il personale è politico” abbia fatto, in questi giorni, la sua comparsa su bocche insospettabili di simpatie per il femminismo, è chiaro che, dopo quarant’anni, la cultura prodotta dal movimento delle donne, cancellata o esclusa dalle vie maestre dell’informazione, ancora stenta a portare allo scoperto l’evidenza più tenacemente e durevolmente invisibile della storia: le radici di ogni forma di potere – di sfruttamento e di violenza, a partire a quella dell’uomo sulla donna-, stanno proprio tra quei “panni sporchi” e tra quelle segrete stanze di casa, che l’ideologia patriarcale vorrebbe innocenti e protettive, o insignificanti e coperte dal pudore. La ‘rivoluzione’ del neofemminismo, ancora indigesta alla cultura familista e misogina del nostro Paese, ha riguardato prima di tutto l’atto fondativo della politica, riconoscendo nell’inclusione/esclusione delle donne, del corpo, delle radici biologiche dell’essere umano, la malattia mortale che essa si porta dietro e che la insidia dal suo interno. Nella vita psichica, come nella storia della civiltà, niente è rimosso per sempre e quando il sottosuolo riemerge è inevitabile che venga visto come il barbaro che invade, la malattia che contamina. Il ripensamento della politica, sulla base di quelle radici dell’umano che essa ha creduto di poter consegnare a una natura immodificabile, o a una patria potestà più violenta dei poteri pubblici, era l’unica strada che avrebbe potuto evitare l’amalgama informe e indistricabile che va sotto il nome di ‘antipolitica’, di cui Berlusconi, sintesi perfetta di privato e pubblico, maschile e femminile, volgarità e sublime, corpo e spirito salvifico, è il campione incontrastato.
Forse il re poteva essere denudato solo da chi lo ha avuto accanto nell’intimità di una casa, da chi ne sa riconoscere debolezze e limiti. Ma se fosse stato solo un ‘panno sporco’, gettato in faccia all’autorevole figura pubblica, non avrebbe potuto colpire così profondamente. Se l’industria dello spettacolo ha fame di segreti domestici, di storie personali, Berlusconi l’ha alimentata nel modo più radicale, modellando la sua attività politica sul suo stile personale, dilatando il suo Io fino a farne Stato, popolo, incarnazione dei più alti valori morali. Questa sintesi perfetta di elementi diversi e contraddittori era già stata disegnata con cura nel numero speciale della rivista Linea Azzurra, Una storia italiana, inviato a milioni di elettori per le elezioni del maggio 2001: era l’immagine magica e religiosa del “sognatore pragmatico”, del buon padre di famiglia che si fa eroe per la salvezza della sua nazione. A scuotere il rituale stantio, ripetitivo fino alla nausea del dibattito politico italiano, poteva essere solo lo sguardo dalla donna che si è venuta a trovare in quell’osservatorio privilegiato che è la soglia, il margine sempre più indistinto tra due mondi, la famiglia e lo Stato, imparentati da sempre. Moglie e cittadina, rispetto allo stesso uomo, Veronica ha legato l’affermazione della sua “dignità” e autonomia di giudizio a una critica lucidissima del potere in tutte le sue forme, soprattutto in quelle più vistose e pur così poco riconosciute, perché ritenute ‘naturali’, fuori scena (o-scene) rispetto alla politica: scontata, per il potere e il privilegio maschile è la trasformazione della sessualità femminile in “sessualità di servizio”, lo scambio tra sessualità e denaro, successo, contropartite di vario genere. “La divisione del lavoro -scrive Paola Tabet ("La grande beffa", Rubbettino 2004)- la disuguaglianza di accesso alle risorse fa sì che le donne dipendano dal loro lavoro sessuale e il sesso venga definito come il loro capitale, la loro terra o merce di scambio, sia nelle relazioni matrimoniali e riproduttive sia in relazioni non matrimoniali”. Sono riflessioni che Tabet fa a conclusione di un lungo studio antropologico, riferito perciò prevalentemente a culture diverse dalla nostra, ma non per questo estranee o irriconoscibili. Se da obbligato il corpo femminile si fa, come accade oggi, protagonista attivo, negoziatore delle sue risorse, a maggior ragione si può affermare che “il rapporto uomo-donna, la sessualità appartengono
al contesto delle relazioni economiche e politiche”, non meno che ai risvolti più intimi -e destinati a restare tali- della vita di ogni individuo.
Quella linea continua, che tiene insieme il corpo femminile violato e straziato nell’ombra delle case e quello che splende di inusuale bellezza sotto i riflettori della Tv -fatta oggetto di analisi da anni dal femminismo, nella speranza di far nascere una diversa cultura politica-, si può intravedere nelle parole di Veronica Lario là dove coglie l’intreccio tra scena pubblica e retroscena, tra patologia del potere e patologia diffusa
nel corpo sociale, tra il privilegio ‘imperiale’ dell’uomo al potere e il comportamento ‘normale’della massa anonima dei suoi ‘sudditi’. “Quello che emerge oggi attraverso il paravento delle curve e della bellezza femminile, e che è ancora più grave, è la sfrontatezza e la mancanza di ritegno del potere, che offende la credibilità di tutte e questo va contro le donne in genere e soprattutto contro quelle che sono state sempre in prima linea e che ancora lo sono a tutela dei loro diritti”.

(12 maggio 2009)



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