Una sintassi (illuminista) dell’amore
Nunzio La Fauci
Il 13 ottobre 1759, Denis Diderot scrive a Louise-Henriette, detta Sophie, Volland: «Avec vous je sens, j’aime, j’écoute, je regarde, je caresse. J’ai une sorte d’existence que je préfère à toute autre. Si vous me serrez dans vos bras, je jouis d’un bonheur au-delà duquel je n’en conçois point. Il y a quatre ans que vous me parûtes belle, aujourd’hui je vous trouve plus belle encore. C’est la magie de la constance, la plus difficile et la plus rare de nos vertus» (‘Con voi sento, amo, ascolto, guardo, carezzo. Ho una sorta d’esistenza che preferisco a ogni altra. Se mi stringete tra le braccia, godo d’una felicità oltre la quale non ne concepisco altra. Sono quattro anni che mi vi palesaste bella, oggi vi trovo ancora più bella. È la magia della costanza, la più difficile e la più rara delle nostre virtù’).
Quando l’amore ispira prose, capita sovente le ispiri trite e sul principio di questo passo c’è una bella infilata di verbi banalmente pronti a ricorrere nella prosa epistolare di qualsiasi innamorato: ‘sento’, ‘amo’, ‘ascolto’, ‘guardo’, ‘carezzo’. Quando ricorrono, verbi siffatti lo fanno in genere nel loro uso transitivo: ‘ti sento, ti amo, ti ascolto, ti guardo, ti carezzo… e sono felice’. Non succede così sotto la penna di Diderot (“philosophe” che scrive alla sua diletta Sophie, si osservi in prospettiva onomastica).
A precedere i verbi in questione, sta ciò che un grammatico direbbe un complemento di compagnia, che ne riceve così rilievo. Non ‘vi amo’, ma ‘con voi amo’. Colei cui il testo si indirizza è la seconda persona: formalmente suona come voi; funzionalmente è ‘tu’ e come tale ci si riferirà a essa nel seguito. La compagnia di ‘tu’ è quindi presentata come condizione al verificarsi di azioni e sentimenti della prima persona: ‘io’ tanto funzionalmente, quanto formalmente. È condizione della ‘sorta d’esistenza’ che la prima persona preferisce. ‘Tu’ non è oggetto, si ponga, di un ‘carezzare’ che ha ‘io’ come soggetto. ‘Tu’ è contesto determinante per il ‘carezzare’ di ‘io’, per il quale, senza ‘tu’, di carezzare non si darebbe il caso. Senza ‘tu’, a ‘io’ mancherebbe l’esperienza di ‘carezzare’. Ne sortisce un’illustrazione della natura reciproca se non simmetrica dell’esperienza erotica. Non solo dell’erotica, naturalmente, ma dell’erotica per elezione. La carezza, che carezza chi la riceve, è esperienza della carezza per chi la fa. I gatti, destinati dall’istinto alla carezza, procurano il godimento della carezza a chi li carezza, per esempio.
Per altri versi, nel costrutto con complemento di compagnia, ‘tu’ non satura e restringe a sé la valenza predicativa, come farebbe se ricorresse nella funzione di oggetto diretto. Resta condizione per il dispiegarsi dei predicati, in altre parole, perché ‘io’ senta, ami, ascolti, guardi, carezzi nella vaghezza dell’uso assoluto. La vaghezza non è però indeterminazione. La relazione ‘tu’-‘io’ vi si atteggia non come limite ma come possibilità, non come costrizione ma come libertà. Dalla fedele o, meglio e come si coglie in fondo al passo, dalla costante condizione della compagnia della seconda persona viene alla prima la possibilità di esperire e di fare, senza che l’oggetto dell’esperienza e dell’azione sia pregiudizialmente ristretto.
Cos’è allora un complemento di compagnia siffatto? Torna utile un exemplum fictum. Ecco tre diverse descrizioni della medesima scena: Al calare del sole, tu ed io leggevamo ancora di Ginevra e Lancillotto, …con te io leggevo ancora di Ginevra e Lancillotto, …con me tu leggevi ancora di Ginevra e Lancillotto. Secondo diverse prospettive, esse proiettano i partecipanti in funzioni sintattiche differenti. Nel loro insieme, mostrano però che tra soggetto e complemento di compagnia può darsi una corrispondenza che consente una varietà di messe in scena. Se dunque Diderot indirizza alla sua bella enunciati che, in superficie, lo vedono come solo soggetto di quei costrutti graziosi, lo fa in virtù di tale gioco. Prospettato come complemento di compagnia, ‘tu’ ne è implicito soggetto al pari di ‘io’. Nella solidarietà, gode dei medesimi privilegi che concede. In casi del genere, come definizione, complemento di complicità sarebbe forse più appropriato di complemento di compagnia.
Il passo esprime d’altra parte la condizione di complicità in modo molto sottile e, a questo punto, a chi legge queste chiose si chiede un supplemento di attenzione analitica. Nella parola di Diderot, ‘io’ non tira in ballo ‘noi’, quarta persona grammaticale, per dire che ‘sentire’, ‘amare’, ‘ascoltare’, ‘guardare’, ‘carezzare’ gli accadono in un contesto di complicità. ‘Noi’ è un artifizio del discorso. ‘Io’ può facilmente ricorrere a tale artifizio per includervi ‘tu’. È quello che succede di norma nella parola che si atteggia banalmente a innamorata (o solidale). ‘Io’ costruisce un ‘noi’ inclusivo di ‘tu’ e, discorsivamente, istituisce così un insieme indistinto. Che ‘io’ lo faccia con le migliori intenzioni, con le più amorevoli, non assicura a ‘tu’ che, una volta privato della sua individualità e disperso in un ‘noi’ creato e gestito da ‘io’, non gli capitino le cose peggiori. Nella parola di Diderot, ‘tu’ e ‘io’ vivono invece la comune esperienza in complice compagnia senza disperdersi in ‘noi’. ‘Tu’ e ‘io’ sono insieme e ciascuno è se stesso/a: è condizione dell’amore e del relativo piacere.
MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.