Una storia sbagliata. Un’infermiera racconta l’emergenza Covid in Lombardia
di Valeria Raimondi
Ciò che cercherò di raccontare è un pezzo di storia dell’emergenza CoVid in Lombardia. L’occasione di riflessione mi è giunta a fine marzo: un’intervista da parte della giornalista Josephine Piccolo per l’emittente WBAI di New York. È in quel momento che ho iniziato a decifrare quanto stava accadendo. È da quel momento che sono riuscita a incanalare rabbia e angoscia. Qui vi racconto, senza pretesa di esaustività, ciò che ho potuto osservare “dal campo”.
Qualsiasi analisi si faccia oggi dell’accaduto, un dato resta certo e indiscutibile: la Lombardia è stata la grande sconfitta di questa pandemia.
Sono nata e cresciuta a Brescia dove da sempre vivo, lavoro e scrivo. Brescia, un’importante città situata in piena pianura padana, uno dei principali centri economico-produttivi d’Italia, con una fitta rete di trasporti e mobilità, con scuole e università, turismo e sviluppo, aeroporti internazionali. Soprattutto una delle “città dell’eccellenza sanitaria lombarda”.
Certo, da decenni c’è chi denuncia l’impatto di industrie e di allevamenti intensivi sull’ambiente, il consumo spropositato di territorio, l’inquinamento da polveri sottili. Ma dal punto di vista sanitario ci si è sempre sentiti al sicuro.
E poi, cosa possono avere in comune l’Italia, la Lombardia, Brescia con il virus che ha colpito milioni di persone in una lontana regione della Cina? Certo, si ha la percezione che qualcosa possa accadere ma non se ne immagina la portata, forse non ci riguarderà, forse non farà grossi danni e infine… andrà tutto bene. Non è andata così.
A fine febbraio scoppia l’emergenza sanitaria nelle province di Lodi e Piacenza. In poco tempo l’epidemia si allarga a Cremona, Bergamo e Brescia. Vengono allora immediatamente isolati alcuni paesi del lodigiano con l’intento di arginare la diffusione di quello che si ritiene sia il primo focolaio. Da quel momento tutto precipita.
Negli ospedali bresciani si susseguono i primi ricoveri, le prime misure di distanziamento e vengono introdotti alcuni dispositivi di protezione individuale (DPI), che immediatamente scarseggiano. Si cerca di dare le prime risposte alle ordinanze regionali con chiusure, riaperture e di nuovo chiusure di servizi e reparti. Pare evidente che non ci sia un vero piano di intervento. Oltretutto, non verrà mai decretata alcuna “zona rossa”, né dal Governo né dalla Regione.
Mentre iniziano le riorganizzazioni dei reparti non vengono mai stabiliti percorsi differenziati nei Pronti Soccorsi: chi mostra sintomi influenzali, insufficienza respiratoria o segni di polmonite si mescola con qualsiasi altra tipologia di utenza. Questa, come si può immaginare, è stata una delle micce per la diffusione del virus.
La situazione precipita: si saturano i pronto soccorso e le relative OBI (Osservazione Breve Intensiva) a causa dell’attività ordinaria a cui si aggiungono gli ininterrotti accessi di pazienti sintomatici in attesa di ricovero o di isolamento. Alcuni, sempre più numerosi, finiranno nelle rianimazioni.
Di giorno in giorno, sulla base di scelte spesso non conformi ai decreti ministeriali e non omogenee ad altre Regioni, si modificano procedure, disposizioni e protocolli in maniera convulsa, poco efficace e probabilmente dannosa. Salta la programmazione dei turni degli operatori che da mensile o settimanale diventa giornaliera, saltano i giorni di riposo e, dai primi giorni di marzo, tutte le ferie vengono sospese. Le ore straordinarie lievitano e ci si sposta a lavorare dove la necessità è maggiore. Per chi opera nel primo soccorso, nelle terapie intensive o nelle rianimazioni la situazione è drammatica, la fatica è tanta, si accumula un senso di impotenza per le scarse risorse contro un bisogno smisurato nonché un’enorme pressione psicologica e anche un sentimento di rabbia: l’idea che l’eroismo possa e debba fare a meno del “martirio”. Per alcune ragioni, prima su tutte la questione legata alla mappatura dei contagi, il personale realmente operativo è sempre meno, si infetta o si ammala.
Dalla mia posizione osservo altri pesanti “effetti collaterali”: per gli utenti con patologie croniche o cardiache, per quelli con traumi, per chi deve sottoporsi a interventi, a dialisi, a riabilitazioni, a cure salvavita, diventa più critico e rischioso accedere agli ospedali e ai pronto soccorso, sia per il timore che per gli ovvi disagi. Le partorienti non avranno accanto il compagno poiché dalla seconda metà del mese di marzo l’accesso non è più consentito ad accompagnatori. Anche i malati oncologici avranno meno sostegno da parte dei parenti. Aumenta poi la preoccupazione di chi non può far visita ai congiunti, dei quali ha scarse e spesso nulle notizie.
Per comprendere, al di là della provata aggressività del nuovo virus, perché non si sia arginata l’epidemia in modo più efficace e perché gli ospedali siano divenuti i primi focolai, è necessario ricordare alcune cose. Per i lavoratori del settore il sistematico impoverimento della sanità pubblica a favore di quella privata ha significato minori tutele, differenze di trattamento economico e di stipendi a parità di funzioni e profili professionali, aumenti dei carichi di lavoro, accumulo di ore straordinarie per lo più non pagate, blocco del rinnovo dei contratti, ma soprattutto blocco delle assunzioni o assunzioni temporanee (che neppure oggi diventano definitive), convenzioni tra pubblico e privato che hanno messo a repentaglio posti di lavoro con tagli di servizi e personale.
All’interno di questo quadro già compromesso si deve ora affrontare una nuova realtà: neppure la salute e la sicurezza nei posti di lavoro può essere assicurata.
Con la legge 81 del 2008 si era definito il concetto di prevenzione e protezione e, distinguendo le tipologie di rischio, si era proceduto a dotare di specifici dispositivi di protezione individuale i diversi operatori. Nonostante ciò, il problema “mascherine” è il primo a presentarsi. Evidentemente c’è stata scarsa lungimiranza negli approvvigionamenti sia in termini di quantità che di adeguatezza.
Fin dall’inizio scarseggiano infatti le mascherine di classe superiore, le ffp2 e ffp3, da sempre definite corrette per l’assistenza in presenza di infezioni virali. Ma le istruzioni operative del Ministero e della Regione si modificano e si complicano mentre le misure di distanziamento definiscono la distanza di un metro come sufficiente perché il contatto non sia “diretto”: è allora che decade l’indicazione dei dispositivi avanzati anche nelle stanze di isolamento con pazienti CoVid positivi e la dotazione di DPI sarà prevista solamente durante particolari manovre nelle Rianimazioni (ma le manovre a rischio sono molte e le distanze nei processi di assistenza non sempre sono possibili!).
Solo alla fine di marzo nuovi protocolli contemplano la “possibilità” di usare mascherine DPI (e non solo di quelle chirurgiche, semplici dispositivi medici) per assistenza a pazienti positivi o laddove le distanze non siano assicurate. Si osserva spesso una cosa paradossale: un operatore con mascherina chirurgica esegue prestazioni a pazienti che indossano una mascherina modello ffp3!
La storia delle mascherine si intreccia da subito con quella dei tamponi, test d’elezione per la diagnosi, ma una direttiva di inizio marzo stabilisce che da questo momento i tamponi non vengan
o più eseguiti in caso di assistenza o di contatti diretti con pazienti ammalati (o positivi a CoVid-19): verranno da quel momento in poi effettuati solamente a chi presenta sintomi.
Verso fine marzo, dopo le proteste di lavoratori e sindacati, in alcune aziende sanitarie si applica un unico provvedimento ossia viene rilevata la temperatura corporea o chiesto un autocontrollo ai dipendenti (non a chi accede in ospedale): sotto i 37,5 gradi il lavoratore sarà considerato “asintomatico”. Fino al mese di maggio questa è stata la prevenzione praticata e solo ora ricompaiono in alcuni servizi le mascherine ffp2 e ffp3. Cresce dunque in modo esponenziale il numero di sanitari che si ammala e qualcuno di loro purtroppo sarà tra le vittime del virus. I luoghi della cura si sono trasformati dunque in luoghi di contagio sia per i lavoratori che per gli utenti.
Nel frattempo, le rianimazioni vanno in corto circuito. Le condizioni di chi ha contratto il virus peggiorano improvvisamente oppure il ricovero è tardivo: ci si saluta e si può solo sperare. Molto spesso sarà restituita ai familiari una bara che verrà trasferita a chilometri di distanza in attesa della procedura di cremazione. Si dovrà così attendere anche il momento in cui poter finalmente piangere. Chi perde o ha perso qualcuno è costretto a vivere un surplus di dolore, un dolore senza dolcezza, un dolore che “dura”. Confesso di aver pensato con angoscia alle gravi ripercussioni psicologiche, personali e collettive, per un fine-vita così brutale e ingiusto.
A questo punto forse è necessario ripassare la storia della sanità lombarda per capire ciò che ha travolto fin dall’inizio gli ospedali e tutta la medicina territoriale, complicando un quadro già tanto compromesso.
Le gestioni dei partiti di centrodestra, delle quali Formigoni è stato regista sin dal 1997, sono sempre andate nella medesima direzione. A quei tempi, grazie alla legge che aveva come principio ispiratore la “sussidiarietà solidale” (allo scopo di uniformare l’offerta sanitaria e realizzare la tanto agognata autonomia), i privati entrarono prepotentemente nel Servizio Sanitario Regionale supportati e foraggiati dal pubblico, riservandosi i settori più remunerativi (assicurandosi così minimi costi e impegni per massimi profitti).
I privati si presero, per esempio, le residenze socioassistenziali, le riabilitazioni o le oncologie, lasciando al pubblico la gestione di settori più costosi quali i pronti soccorsi. Dentro questa gara il pubblico vedrà tagliati migliaia di posti letto con un continuo impoverimento sia in risorse materiali che umane. Verranno ridotti i controlli regionali sulle strutture accreditate e molti servizi verranno esternalizzati. E ancora, si renderà possibile l’intramoenia, ossia l’esercizio della libera professione dei medici dipendenti delle strutture pubbliche, che diventa il metodo più semplice di ovviare, per chi può permetterselo, alle liste di attesa che si allungano proprio sotto la gestione Formigoni. Contemporaneamente si ha l’occupazione dei posti strategici nella macchina sanitaria regionale da parte di uomini adatti e fedeli.
Queste scelte di autonomia hanno anche un retroterra culturale che ha prodotto la distruzione della rete dei consultori pubblici e della medicina di base. Il presidente Roberto Maroni in particolare puntò molto sull’attività ospedaliera svuotando di operatività e mezzi la medicina territoriale. Le gestioni regionali, d’altra parte, hanno sempre potuto contare sulla libertà d’azione consentita dal centrosinistra sotto forma di compartecipazione al potere, accordi e concessioni di convenzioni: in particolare il premier Romano Prodi e il suo governo furono di manica larga con gli accreditamenti.
Poiché meno controllo pubblico significa, lo sappiamo, poter insabbiare molte più cose, ecco lo scarso controllo su situazioni, dati, sicurezza del personale: ora sappiamo che i focolai nascosti in alcune strutture private o nelle RSA sono stati responsabili di troppi decessi tra i nostri anziani; ora sappiamo essere stato un grave errore non aver testato la popolazione a rischio di contagio ossia non aver immediatamente e sistematicamente separato i casi positivi da quelli negativi.
È dunque accaduto che gli ospedali, al collasso, dissuadessero dal ricovero i sintomatici lievi le cui condizioni iniziarono così a precipitare. Emerge qui tutta la drammaticità delle criticità territoriali: abbandono della cura domiciliare con ridotta disponibilità dei medici curanti costretti, ricordiamolo, a definirsi negli anni più come impiegati che come clinici; assistenza domiciliare compromessa per il trasferimento di personale nei reparti di isolamento: ridurre del 70-80 per cento le forze in campo con malati che restano a casa senza mai essere diagnosticati o senza una quarantena sicura, ha significato lutti devastanti per molte famiglie; ricoveri tardivi con isolamenti nei reparti o nelle terapie intensive dove si sono vissuti gli ultimi istanti di vita senza poter condividere paura e dolore, affetto e ricordi.
Le responsabilità sono tante. Ci si chiede che fine abbia fatto il Servizio sanitario nazionale poiché ogni Regione ha deciso in autonomia se trasferire parte del proprio personale in zone particolarmente esposte. Forse sarebbe stato importante che Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Piemonte costruissero una politica comune. Forse il governo avrebbe potuto e dovuto vigilare che queste autonomie gestionali non si trasformassero in ostacolo per la cura dei pazienti.
Ma anche altri lavoratori, a rischio per contatti quotidiani con il pubblico, sono stati lasciati soli a gestire l’autoisolamento all’interno delle famiglie, con il test del tampone costantemente negato.
Dentro tutto questo scenario ricordiamo che nel bresciano e nel bergamasco la produzione di beni non è mai cessata. grazie alle pressioni di Confindustria per allargare le maglie delle attività ritenute essenziali. Così, chi nelle fabbriche viene separato all’interno dei reparti, dove i DPI sono insufficienti e riciclati per giorni, si ritrova poi assembrato negli spogliatoi o nelle mense con il rischio di essere veicolo asintomatico di trasmissione per i familiari.
Sposterei però l’attenzione su un altro aspetto di questa storia ossia sulle misure di isolamento. Certo, chi ha vissuto lontano dal contagio percepisce forse in modo meno definito o con un vago senso di timore questi accadimenti. Ma come sia cambiata la socialità è chiaro a tutti. Ritengo che il lockdown si sia reso necessario soprattutto laddove questo sistema irresponsabile ha compromesso gravemente la prevenzione. Ma ritengo che le misure di contenimento, in continuo aggiornamento, non siano sempre state di facile e chiara interpretazione e neppure, talvolta, ragionevoli e coerenti.
Personalmente, come altri, ho vissuto una dimensione ben conosciuta, quella dei periodi di «sospensione» durante le lunghe malattie dei familiari: le energie sono tutte lì, si sta dentro la situazione, si tentano cure, si allevia ciò che si può alleviare, si sogna la guarigione, ci si fa forza. Ma in questo caso è mancato il sostegno delle relazioni, si vive l’angoscia in solitudine, con scarse distrazioni, senza respiro, senza l’aiuto della natura che gratuitamente ci sa consolare. A questo proposito è risaputo che la nostra regione, tra le più inquinate d’Europa, è particolarmente esposta a veleni ambientali e che in tutta la pianura Padana è presente una desertificazione da consumo spropositat
o di territorio. C’è chi ritiene che questi aspetti non siano di scarsa importanza, insieme all’industrializzazione intensiva, nella genesi della diffusione.
Mi sono infine interrogata sulle possibili implicazioni, non secondarie, che potrebbero derivare da questa emergenza. Se la paura è un’emozione legata al pericolo, l’ansia e l’angoscia, sentimenti comuni e attuali, derivano dal senso di impotenza di fronte alle contraddizioni di questo sistema “modello” che ha messo ulteriormente in pericolo le persone. Dell’angoscia si nutre la rabbia, rabbia per qualcosa di profondamente ingiusto come le scelte scellerate del passato o come l’informazione manipolata che oggi si rivela in tutto il suo squallido carosello di interventi, opinioni e notizie false o scorrette.
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Non ho potuto non pensare ai soggetti più fragili. Ritengo che alcune politiche di limitazione, necessarie in linea generale, non abbiano certo giovato a relazioni familiari fondate sull’esercizio violento del potere di uomini sulle compagne o di adulti su minori. Penso ai malati psichiatrici: in una cultura dove la malattia mentale subisce incomprensioni e stigmi, questa situazione potrebbe avere gravi ricadute. Chi soffre di disturbi dell’umore o di depressione, chi abusa di sostanze, chi ha iniziato da poco un percorso di guarigione, a causa della riduzione delle attività connesse al lockdown, ha trovato più faticosa la via alle cure o alla presa in carico. Molti sono i medici che hanno lanciato l’allarme di un possibile aumento di tentativi di suicidio e di esordi psicotici. Altri denunciano un aumento di abuso di alcoolici dopo le chiusure dei centri di supporto. Nei reparti psichiatrici ci sono ulteriori criticità: il divieto assoluto di contatti diretti con i familiari dovrebbe interrogarci sulla progettualità fondante di tali regole e misure. Penso infine al ricorso allo Smart Working o alla scuola a distanza, strategie piuttosto penalizzanti per le donne e le lavoratrici: mi auguro non si tratti di un’arma a doppio taglio che le politiche del lavoro potrebbe impropriamente utilizzare. In questa storia “sbagliata” ritengo che andassero considerati sin dall’inizio alcuni aspetti, anche quelli velati ma conosciuti, così da non dover affrontare poi gravi emergenze sociali. A tal proposito ho definito questi come “tempi di smascheramenti”.
Vorrei infine spendere due parole sul gergo diffuso di tipo militare, sul continuo riferimento ad uno stato “di guerra” che tende a riconoscere solo e sempre una causa ed un nemico esterno agli accadimenti. Ciò mi pare funzionale allo scaricare colpe piuttosto che a prendersi responsabilità del fallimento di un sistema, sistema che sopravvive da decenni in una destra prima secessionista/federalista ed ora sovranista, ma anche in una certa sinistra complice. Forse in guerra si è davvero tutti uguali, tutti sulla stessa barca. In questo caso non è così. Nell’emergenza, affrontata con tali modalità e responsabilità, le ingiustizie sociali si acuiscono. Chi non può farsi curare, chi non ha soldi per una badante, chi non ha spazi adeguati in casa, chi ha un lavoro precario, chi è solo, avrà danni maggiori. Nessuno è uguale oggi, nessuno lo sarà domani. Mi chiedo se il senso di responsabilità individuale, continuamente richiamato, non rappresenti un alibi per scaricare ogni fallimento o successo sui cittadini stessi, costretti dunque a scegliere, se scelta si può definire, tra sicurezza e vita.
Concludo con questo mio breve scritto.
«Dover scegliere tra vita e libertà è un falso. Perché i due concetti, sia nel pensiero che nel concreto, dipendono da un’analisi dell’attualità costruita su un passato che non ha ragionato e neppure custodito le due cose. Io penso che le elaborazioni di lutti, di perdite, ma anche di cambiamenti, si costruiscano "oggi", si facciano "dentro l’emergenza" e non "dopo". Si fanno con un pensiero critico e collettivo. Ossia, dal modo di affrontare oggi un’emergenza dipende la ricostruzione del dopo. L’errore peggiore è pensarla, e dunque affrontarla, a compartimenti stagni. Dobbiamo fare attenzione: l’emergenza affrontata senza un pensiero critico, sarà domani emergenza sociale, politica, psicologica».
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