Undici tesi sulla laicità

Paolo Flores d’Arcais

Lo scontro di civiltà è in atto, non tra Occidente cristiano e islam, però. L’eccidio fondamentalista islamico di Wolinski e dei suoi compagni di Charlie Hebdo è la dichiarazione di guerra del Sacro contro il disincanto, della sovranità di Dio contro la sovranità dei cittadini. Una guerra che divide l’Occidente e rende palesi le tante ‘quinte colonne’ di una laicità sottomessa che si spaccia come ‘aperta’. Solo l’esilio di Dio dalla sfera pubblica, e l’autos nomos che si realizzi come democrazia libertaria e anche materialmente egualitaria, ci possono salvare.

, da MicroMega 4/2015

1. La laicità è diventata una questione di vita e di morte, alla lettera. Costituisce, non a caso, la questione cruciale della democrazia. Anche se lo avevamo dimenticato, se avevamo dato la laicità per acquisita, al punto che anche il pensiero «laico» prestigioso ne teorizzava il superamento come inveramento (l’immancabile Aufhebung hegeliano): la società post-secolare.

Il 7 gennaio il terrorismo islamico ha riportato le democrazie alla realtà: la strage della redazione di Charlie Hebdo è una dichiarazione di guerra alla libertà d’espressione, alla laicità, al disincanto, alla modernità, cioè alle stratificazioni logiche e storiche via via più lontane e più profonde che fanno da fondamenta della democrazia.

Che questa progressione di fondamenta fosse la posta in gioco lo ha capito la passione illuminista e repubblicana delle masse di Parigi e dell’intera Francia, con la più grande manifestazione di piazza mai registrata dai tempi eroici della Liberazione. L’emozione popolare – ancora più significativamente se inconsciamente – ha rappresentato il massimo di lucidità e comprensione razionale dell’evento: i terroristi hanno voluto mirare al cuore delle libertà «occidentali» in quanto libertà tout court: la coerenza del disincanto.

Uno scontro di civiltà che non contrappone islam a mondo giudaico-cristiano, ma che divide e mette in conflitto all’interno di entrambi e di ogni altra costellazione cultural-geo-politica. Non la guerra santa tra religioni, infatti, ma la guerra del Sacro contro l’autos nomos, il «darsi da sé la legge», la sovranità di Homo sapiens su se stesso, che sostituisce su questa terra l’eteros nomos, la sovranità di Dio, come fonte di legittimità nel dettare gli ordinamenti, i valori, i diritti e i doveri di ciascuno.

Sacro vs disincanto. Una guerra che divide il laico intransigente dal laico accomodante assai più che il credente dal non credente, ed evidenzia i due grandi «partiti» storici che percorrono l’Occidente, quello della coerenza o dell’ipocrisia rispetto al disincanto e alla sua logica.

La laicità è un corollario del disincanto, e la libertà fino all’irrisione di ogni potere è il corollario di entrambi, lo svolgimento pieno dell’autos nomos, il cui culmine è dunque quello libertario (e libertino) che proclama: ni Dieu ni maître.

2. Ni Dieu… Se la religione nella sfera pubblica è addirittura un valore aggiunto, come ripete da anni Habermas in un crescendo, l’«argomento Dio» deve avere piena legittimità nella discussione politica, nei comizi elettorali, nei dibattiti televisivi. Di conseguenza, questo stesso argomento ha pieno titolo per risuonare nelle aule parlamentari quale motivazione per avanzare, approvare, rifiutare una proposta di legge. Sarebbe paradossale e incongruo che una giustificazione valida per decidere, nel dia-logos tra cittadini, chi scegliere quali rappresentanti della propria sovranità, fosse poi bandita dal confronto con cui i «deputati» di quella stessa sovranità arrivano a decretare la legge. Se però la volontà di Dio costituisce una buona ragione democratica per statuire le misure normative che vincolano tutti i cittadini, a maggior ragione varrà come motivo da invocare nelle aule dei tribunali e nelle relative sentenze, con cui si applica la norma generale e astratta alle fattispecie concrete dei casi singoli.

Ma c’è qualcuno, che si proclami laico (e non importa con quali aggettivi limitativi), disposto ad ammettere che si condanni o assolva un imputato perché «Dio lo vuole»? Le pretese teocratiche ne sarebbero perfettamente soddisfatte.

La sfera pubblica è una e indivisibile, anche e proprio per la ricchezza e la pluralità delle sue articolazioni, che la rendono una complessità circolare di ambiti comunicanti. Se il nomos di Dio è ammissibile in uno di essi non può essere escluso dagli altri. L’alternativa perciò è secca. O l’esilio di Dio dall’intera sfera pubblica, o l’irruzione del Suo volere sovrano – dettato come sharia o altrimenti decifrato – in ogni fibra della vita associata. Aut aut.

Ogni «apertura» della laicità, aprendo crepa e falla nel rigore del-la sua logica, costituisce un «cavallo di Troia» delle pulsioni teocratiche di colonizzazione dell’esistenza collettiva. Ecco perché è inerente alla democrazia l’ostracismo di Dio, della sua parola e dei suoi simboli, da ogni luogo dove protagonista sia il cittadino: scuola compresa, e anzi scuola innanzitutto, poiché ambito della sua formazione. Al fedele restano chiese, moschee, sinagoghe, e la sfera privata «in interiore homine».

3. Poiché ne costituisce il fondamento, l’antefatto storico che è anche presupposto logico, la laicità è il criterio sovraordinato e pregiudiziale alla soluzione dei problemi della democrazia. L’anello cruciale del dischiudersi, fino al compimento, dell’autos nomos nel suo svolgimento per filiazione: disincanto>laicità>sovranità-di-tutti-e-di-ciascuno.

Valga il vero. Il «darsi da sé la legge», anziché obbedire a quella eterna di Dio, che fa di Homo sapiens il creatore e signore della norma, possiede una logica incontenibile. Una volta assunta, cioè s-catenata dai ceppi dell’eteros divino, deve incarnarsi progressivamente nelle successive conquiste storiche di universalizzazione dell’autos umano: dalla laicità di «etsi Deus non daretur» per i sovrani, che per i sudditi suona «cuius regio, eius religio», alla spartizione di sovranità con parlamenti rappresentativi censitari, alla «liberté» intrecciata a «égalité» e «fraternité» del primo suffragio «universale», alla sua implementazione con il voto alle donne. Oppure regredire e dileguare nella restaurazione di eteronomia del Sacro. Fino alla feccia, eventualmente: la teocrazia.

Ma quale eteros, se l’Unico Dio è diventato plurale? Dopo che i monoteismi hanno soppiantato i tolleranti pantheon «pagani», ibridabili e interscambiabili, la volontà di Dio, per funzionare da ordinatore sociale, deve essere Una. Il Nomos cui si deve obbedienza, per essere da tutti riconosciuto quale fonte tranquillizzante di senso e di sicurezza, deve essere incont
rovertibile
, dunque necessariamente Uno. L’eresia, se non viene cancellata sul nascere dal rogo e si afferma come interpretazione alternativa, lo mina irrimediabilmente. L’Altro e Alto, se non resta Uno, se ormai scisso, diventa polemos, consegnato a un’ordalia interminabile.

Ma il giudizio di Dio è visibile solo come verdetto del campo di battaglia.

Per non distruggere nelle guerre di religione le società che deve governare, la sovranità del Nomos divino deve dunque essere neutralizzata. L’istinto di sopravvivenza ha forzato l’Europa dei sovrani ad accogliere l’empia invasione della laicità, che vedrà infine i barbari – Terzo Stato e sanculotti – impadronirsi della sovranità tagliando la testa ai sovrani.

Una volta istituita la sfera pubblica in forma democratica, rilegittimarvi Dio vuole dire inocularvi il virus che rende incombente e in agguato l’intero percorso a ritroso, fino alla guerra civile di religione, potenziale e permanente.

4. Perciò.

La religione è compatibile con la democrazia solo se disponibile e assuefatta all’esilio di Dio dalle vicende e dai conflitti della cittadinanza, solo se pronta a praticare il primo comandamento della sovranità repubblicana: non pronunciare il nome di Dio in luogo pubblico.

La religione è compatibile con la democrazia solo se addomesticata, cioè convertita all’autonomia assoluta della norma civile rispetto alla legge religiosa. Solo se persuasa che la sanzione spirituale del peccato non può pretendere il soccorso del braccio secolare che lo renda reato. Di più, la religione deve accettare la libertà del peccato come diritto di ogni cittadino: il peccato mortale garantito e protetto dalla legge, se così ha deciso la sovranità dell’autos nomos. Accettare e interiorizzare.

Le religioni compatibili con la democrazia sono dunque religioni docili, che hanno rinunciato a ogni fede militante (di sharia e martiri o di legionari di Cristo e altre comunioni e liberazioni) che intenda far valere nel secolo la morale religiosa. Sono religioni sottomesse, che hanno interiorizzato l’inferiorità della «legge di Dio» rispetto alla volontà sovrana degli uomini su questa terra. Sono religioni ri-formate, perché avvezzano il fedele a una vita serenamente scissa tra l’ordinamento della salvezza e l’ordinamento della convivenza, tra l’obbedienza personale ai comandamenti divini e la doverosa promozione della libertà di ciascun altro di violarli.

La venerata formula «date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» è perfettamente inservibile perché non stabilisce il confine tra i due ambiti. Chi decide cosa sia di Dio o di Cesare, Dio o Cesare? Non appena «Cesare» sia però l’autos nomos di-tutti-e-di-ciascuno, nessuna ambiguità è più tollerabile: la sovranità democratica è la sola sovrana, e istituisce la libertà religiosa come libertà d culto e di coscienza purché non interferisca con le libertà repubblicane, purché i credenti assumano il «muro di separazione» tra politica e fede come proprio irrinunciabile dovere civico.

5. La religione compatibile con la democrazia deve accettare che quest’ultima sia Sodoma e Gomorra. Deve anzi interiorizzare, come virtù civica cui al credente non è dato sottrarsi, l’allegro dispiegarsi nel mondo del peccato che per la fede è contro natura, o il doloroso ricorso al peccato che toglie a Dio il monopolio sulla vita e sulla morte. E molto altro abominio, quale fioritura di plurali libertà dei cittadini sovrani.

Un esito del tutto imprevisto quando la laicità venne teorizzata e instaurata, ma inoppugnabile conseguenza del principio.

Quando Roger Williams fonda nel 1636 Providence e poi il Rhode Island, perché vi possano convivere cristiani che nel vecchio mondo si scannavano, insieme a nativi animisti e idolatri, a ebrei per secoli «deicidi» e perfino ad agnostici e atei, tutti in piena libertà di coscienza e nella inaudita separazione radicale di autorità civili e religiose, quando Thomas Jefferson, autore della «Dichiarazione di indipendenza» e terzo presidente degli Sati Uniti, scolpisce la formula del muro di separazione, nessuno immagina che le coscienze dei singoli, cui è ora affidata la creazione della norma, possano volere una morale sessuale diversa da quella del «buon padre di famiglia».

Oggi il relativismo morale è invece il corollario ineludibile della libertà di coscienza. Homo sapiens è irreversibilmente («imperante laicitate») signore e padrone del mondo della norma. Nascita, sesso, morte, i momenti cruciali e gli aspetti fondamentali dell’esistenza, sono sottratti anche all’ultimo travestimento dell’eteros nomos, la «morale naturale». Che viene ancora brandita come arma ideologica per imporre la propria etica agli altri, ma che nell’eguaglianza dei cittadini sovrani collassa definitivamente.

L’eguaglianza democratica implica piena libertà di scelta di ciascuno rispetto a nascita, sesso, morte, purché non sia sopraffazione di un’identica libertà altrui. Per restare compatibile con la democrazia, la religione deve dunque rinunciare a utilizzare la leggenda della «morale naturale» (o la menzogna del feto già «persona» fin dal concepimento), per contestare il diritto del cittadino all’eutanasia, alla contraccezione, all’aborto (entro i sei mesi di gravidanza), per non parlare di fornicazione, matrimonio omosessuale, promiscuità sessuale secondo ogni gusto e preferenza.

6. In realtà esiste anche una fede (una sola) tutt’altro che tiepida, una fede appassionata, addirittura esaltata e tuttavia compatibile con la democrazia: quella che considera un dovere verso Dio rispettare la libertà degli uomini fino al peccato mortale e all’empietà, poiché solo l’Onnipotente può decidere i chiamati e gli eletti. Saturo di questa fede Roger Williams, pastore puritano che non tollera nessuna Chiesa come gerarchia o come potere che non sia esclusivamente spirituale, diventa il pioniere e l’apostolo della laicità nel nuovo mondo. Della decisione politica come ateismo pratico.

Così, si parva licet, gli sparuti cattolici italiani che invitarono a votare no nei referendum con cui i papi e i loro lacchè parlamentari volevano abrogare le leggi che istituivano il divorzio e consentivano l’aborto.

Ma quante sono le religioni realmente esistenti (non le singole coscienze religiose di alto, epperciò laico, sentire) disposte a interiorizzare limiti obblighi e spiritualità che l’autos nomos pone all’universo del sacro perché non aggredisca le libertà democratiche?

La libertà di religione che la democrazia garantisce è solo un sottoinsieme della libertà di coscienza e di opinione, dunque è anche libertà dalla religione, libertà di critica della religione, di irrisione dei suoi dogmi come superstizioni, dei suoi profeti e santi come impostori, dei suoi celebranti come fanatici e/o sepolcri imbiancati. In altri termini e inequivocabilmente: la libertà di religione è anche e sempre libertà di offesa della religione.

Esattamente quanto rifi
uta e combatte la «laicità» aperta o positiva. Che dietro l’accattivante aggettivazione scolorisce e lesiona la laicità tout court, barattando la coerenza dell’autos nomos e del disincanto con il riconoscimento pubblico delle religioni, spacciando con ciò come dovere civico il rispetto verso tutte le affermazioni, interpretazioni e letture del Sacro: revanscismo dell’eteros nomos.

Risultato: cristianesimi ed ebraismi che, obtorto collo o per evoluzione autentica, si erano piegati a, o avevano maturato la, lealtà civica della laicità, stanno prolificando, a mimesi ed emulazione delle comunità islamiche e dei loro successi presso sovranità democratiche prone al politically correct, movimenti militanti di occupazione della società civile e riconquista della sfera pubblica. Avamposto dell’insediamento, il riconoscimento della dignità del Sacro nella forma di punizione e proibizione dell’offesa a ogni religione.

7. Ma chi decide del confine tra l’offesa e la critica? L’offesa è sentimento peculiarmente soggettivo, tanto più risentita quanto più ipertrofico l’ego del credente, la sua sensibilità mondana, il suo narcisismo per identificazione col gruppo.

Si faccia perciò attenzione: la proibizione dell’offesa alle religioni mette la libertà di critica alla mercé del fondamentalista, lo legittima giudice civile della censura, poiché non esiste misura «oggettiva» che possa emarginare il suo «sentire» verso l’empietà come eccessivo o patologico. Del resto i credenti «moderati» (di tutti i monoteismi) non si distinguono dai fondamentalisti quanto al risentimento contro la bestemmia e l’irrisione, bensì soprattutto e quasi esclusivamente quanto all’entità della sanzione che considerano giustificata: il pugno di Bergoglio anziché la raffica di rue Nicolas Appert.

Ma una volta canonizzata l’offesa – e dunque la suscettibilità soggettiva che la percepisce – quale criterio per definire la colpa, quella stessa suscettibilità diventa giudice nello stabilire la pena. Poiché l’oltraggio a Dio o al suo Profeta, o alla Madonna, o alla Seconda e soprattutto Terza Persona della Trinità (imperdonabile è infatti il peccato contro lo Spirito Santo, Marco 3, 28-29) è incomparabilmente più grave di ogni delitto contro quell’infimo rispetto a Dio (o alla Madonna o al Profeta) che è l’ordinario appartenente a Homo sapiens che tutti noi siamo.

A meno di non prendere sul serio la definizione di Dio, Clemente e Misericordioso, infinitamente buono e innanzitutto Onnipotente, dunque inattingibile dall’uomo perché senza misura con la sua finitezza, e certamente neppure sfiorabile da quel nulla, rispetto alla Sua infinita Maestà, che è qualsiasi offesa umana, troppo umana. Ateismo pratico di cui è capace qualche mistico, o epigone di Roger Williams, non le religioni realmente esistenti, in libidine di riconoscimenti mondani.

Solo l’ateismo è la coerenza della laicità generata dal disincanto. L’ateismo di massa almeno come ateismo pratico del cittadino quando è cittadino, che solo pochi fedeli sanno davvero conciliare con la fede per il proprio Dio di salvezza. L’ateo del resto viene oltraggiato nella sua sensibilità illuminista e critica da ogni atto e parola delle superstizioni religiose, e accetta la quotidiana offesa serenamente, come inevitabile obolo alla libertà.

8. Tutte le religioni, e certamente tutti i monoteismi, portano in grembo la tentazione teocratica e la riserva mentale verso l’au-tos nomos che inaugura la modernità e la sequenza lai-ci-tà>so-vra-nità>democrazia che ha generato.

Oggi, però, l’islam in modo specialissimo. Quasi un millennio fa aveva i suoi teologhi e filosofi assai più avanti per «razionalità critica» di quelli europei, poi si è fermato. Non ha avuto la sua Riforma, e l’effetto collaterale di imprevista eterogenesi dei fini con cui la religione finisce per rinunciare alla teocrazia. Non accetta la divisione secolare tra potere civile e legge religiosa, può tollerare eventualmente nicchie di altri monoteismi nei suoi territori ma non la libertà religiosa, visto il ruolo centrale del concetto di apostasia, punito con la morte, per chi abbandona la fede di Allah. Il suo Libro non è ispirato da Dio, ma da Lui dettato al Profeta, parola per parola, sottratto perciò all’ermeneutica dell’allegorico: morte vuol dire morte, lapidazione lapidazione.

La distinzione occidentale tra islam fondamentalista e islam moderato è insensata quando riferita a regimi e governi, poiché «moderato» per antonomasia è quello saudita, dove la sharia è applicata con coreografie pubbliche di raccapricciante ferocia.

Non tutto l’islam è fondamentalista, ça va sans dire, non tutto l’islam è fanatico, ci mancherebbe. Ma fin qui l’islam disponibile a riconoscere la libertà religiosa, di cui l’irrisione irreligiosa è aspetto insopprimibile (del resto le religioni per definizione si trattano reciprocamente di «false e bugiarde») resta episodio di individui isolati, in patria perseguitati, nell’immigrazione mai egemoni e anzi sempre più ignorati o rifiutati. Al punto che passa per islamismo «aperto» e «laico» la teocrazia inzuccherata di Tariq Ramadan.

Incombe dunque ai fedeli del Profeta affermare e rendere egemone un islam riformato oggi quasi introvabile. Cominciando ad azzerare la coltre di ambiguità dell’islam che continua a salmodiare un sincero no al terrorismo ma nell’intolleranza ribadita verso chi insulta la Fede e il Profeta. E incombe all’Occidente che si dice laico non offrire sponde a tali aberrazioni, regalando invece ogni spazio, voce, risorsa all’islam minoritario disponibile alla modernità democratica.

9. La modernità nasce dalla contingente sinergia di eresia+scienza, ma la scienza (oggi, non agli esordi) si è dimostrata assimilabile e metabolizzabile dalla fede, compatibile con la mancanza di laicità. Nel fondamentalismo khomeinista lo chador convive col chip elettronico, in quello terrorista con l’esplosivo di ultima generazione e l’hackeraggio in rete.

L’eresia no. L’eresia, una volta lasciata libera rompe la rotonda unità di una comunità di fede, legittima il dissenso fino al singolo dissidente, si muta perciò in libertà di coscienza, di opinione, di organizzazione, in rivendicazione inarginabile di sovranità eguale.

La pretesa di rispetto per la propria religione, col suo corollario di riconoscimento pubblico per ogni comunità che ne sia veicolo, nega l’individuo esattamente nel suo diritto all’eresia, all’apostasia, all’esistenza singolare, lo incatena all’appartenenza di fede-e-sangue, lo riduce a funzione della comunità. Chi esige il rispetto del Sacro impone al tempo stesso, ne sia consapevole o meno, il rispetto per la comunità dei credenti dove nomos di fede e gerarchie fanno corpo unico, che l’individuo dovrà dunque rispettare, riprodurre, rafforzare. A umiliazione di corpo e spirito della donna, sempre e comunque.

L’Occidente che a Londra legittima tribunali di sharia per dirimere conflitt
i matrimoniali, familiari, di eredità, o che a Berlino consente la latitanza delle ragazze dai corsi di biologia e di ginnastica, e che in ogni metropoli di vecchio e nuovo mondo finge di non sapere i matrimoni forzati a centinaia di migliaia, calpesta le libertà più elementari che da secoli ha proclamato imprescrittibili, e inviolabili anche dalla più schiacciante maggioranza, ma ora gettate alla mercé delle minoranze patriarcali. Una forma di razzismo.

Il rispetto che la democrazia deve, e che anzi la fonda, riguarda le libertà di-tutti-e-di-ciascuno, compresa la critica vissuta come dileggio, non la «libertà» di comunità che possono costituire la vanificazione e l’annientamento delle prime. L’eguale cittadinanza è l’unica identità che la democrazia deve tutelare come insopprimibile. Impedendo con l’educazione alla laicità che non solo la violenza ma anche la pressione sociale e la manipolazione psicologica perpetui la sudditanza al conformismo patriarcale.

10. La coerenza del disincanto celebra la sua apoteosi nel «ni Dieu ni maître», abbiamo visto. Ni maître, allora.

Perché la cittadinanza sia vissuta da ciascuno come la propria identità, perché il cittadino non senta urgere il bisogno di un’identità vicaria, è necessario che la democrazia adempia quanto promesso: l’eguale sovranità, l’eguale potere di ciascuno. Che almeno la approssimi, asintoticamente, come anima e bussola irrinunciabile della sua vicenda quotidiana, della sua cronaca politica. Questo potere eguale sarà delegato nel suo esercizio legislativo e governativo, ma la sovranità simmetrica che «si rappresenta» in parlamento non può diventare miraggio e virare a beffa senza che si scateni la pulsione di comunità, che nell’Uno dell’obbedienza e dell’esaltazione (dalla curva sud all’umma) surroghi la fraternité promessa e sottratta dalla democrazia tradita.

«Liberté, égalité, fraternité» costituiscono un’endiatri, l’intreccio indisgiungibile di valori in cui ogni elemento è interpretato in connessione al successivo, e non c’è libertà in conflitto con l’eguaglianza e non c’è eguaglianza in conflitto con la fratellanza, e meno che mai il commiato di tutte e tre, senza che a repentaglio sia la democrazia stessa. Nella terminologia di Jefferson della «Dichiarazione d’indipendenza» si chiamerà «diritto al perseguimento della felicità», per tutti.

Si combatte la deriva comunitaria/identitaria, brodo di coltura per ogni revanche di fede sangue e suolo, di cui il terrorismo «in partibus infidelium» è la versione macellaia ma logica, solo realizzando democrazia, aumentando instancabilmente per tutti libertà, eguaglianza, fratellanza: potere eguale. L’opposto di quanto avviene nelle democrazie realmente esistenti. Che dopo i mesi di passione del Maquis e della Resistenza, e la ventata del Sessantotto, conoscono solo establishment che lobotomizzano la sovranità, disfrenano hybris di diseguaglianza, calpestano la fratellanza nell’idolatria liberista e nell’apoteosi del gioco d’azzardo finanziario.

La libertà è anche libertà materiale. Il «muro di separazione» della laicità non è formalismo procedurale, ma ethos dell’autos nomos nella sua essenza egualitaria, oltre che in quella libertaria. Emancipazione sociale permanente.

11. La laicità è la coerenza della libertà. L’intransigenza della libertà. L’estremismo della libertà.

Ma la libertà per sua natura non è illimitata. Ab-soluta è infatti solo la libertà di chi negli altri possiede dei sudditi (o «ama» creature), non degli eguali. La libertà ab-soluta è per definizione solo quella di Dio, e del suo Unto in terra. La libertà eguale trova per definizione il suo limite nell’eguale libertà di ciascun altro.

Il razzismo nega la precondizione più elementare dell’eguale libertà, impedisce addirittura che sia pensabile qualcosa come la «dignità umana», nell’altro dai connotati arbitrariamente scelti (per dna siamo tutti infinitamente meticci, e l’umanità più «pura», cioè originaria, viene dall’Africa) vede un instrumentum vocale, materia da asservimento. La libertà di razzismo è l’attivazione colpevole di un bacillo di disumanizzazione, la coltivazione in vitro di virus pestilenziale, la sua dispersione di massa. Il logos razzista è virus che azzera le libertà. Non costituisce libertà d’opinione, ma un criminale giocare al contagio contro la libertà.

Non si giochi coi termini, però. L’antisemitismo è razzismo, l’antiebraismo e l’anticristianesimo, se non fanno amalgama con presunzione di razze, restano più che legittime critiche di religioni (l’islamofobia, dunque, non è razzismo, esattamente come la papistofobia delle «teste rotonde» di Cromwell), l’antisionismo è opposizione a un’ideologia politica.

Soppressione sistematica di libertà in coerenza con dottrina, ideologia, valori, sono stati anche i fascismi, la cui nostalgia, apologia, propaganda, riorganizzazione non possono dunque far parte della costellazione delle libertà: sarebbe masochismo della democrazia creare le condizioni che rendano necessario una volta di più (una volta di troppo) «sortir de la paille les fusils la mitraille les grenades», rischiare carcere e tortura, sacrificare la vita, per sconfiggere la peste nera già sconfitta.

Razzismo e fascismi, le uniche limitazione della «libertà» che la libertà esige. Per il resto bastano le leggi che proteggono dalla diffamazione (i singoli, e per fattispecie che devono restare di puntuale circostanziata gravità) e colpiscono l’istigazione a delinquere (anche qui con circospetta limitazione a casi gravissimi e diretti).

La laicità è una questione di vita e di morte per la democrazia. Questione di sopravvivenza per entrambe è ormai un improcrastinabile crescendo di potere eguale, politico e materiale.

(19 novembre 2015)



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