L’Università è un bene pubblico?

Giuseppe Montalbano

Cosa da tempo insolita a vedersi, l’Università e l’accesso alla formazione universitaria hanno fatto un’inaspettata irruzione nel dibattito pubblico e nella contesa elettorale in vista del voto del prossimo 4 Marzo. Prescindendo dai pro e contro delle singole proposte messe in campo, il fatto stesso che da più parti continuino a sollevarsi questioni legate al ruolo della tassazione (più correttamente, contribuzione) studentesca, al potenziamento del diritto allo studio, all’abolizione del numero chiuso ai corsi universitari e, in generale, alla desiderabilità di un più alto numero di laureati, rappresenta di per sé una boccata di ossigeno rispetto agli spazi angusti e marginali cui troppo spesso questi temi vengono soffocati nell’agenda politica del Paese.

Tirare fuori il discorso pubblico sull’Università dai moduli rodati della cronaca scandalistica sui concorsi truccati o dai tecnicismi per i soli addetti ai lavori, è già un primo passo. L’importante è (innanzitutto) che se ne parli. Ma dal momento in cui se ne parla è ancora più importante che si inizi anche a parlarne per bene e a fondo. Il dibattito di queste settimane richiede di sviscerare proprio una questione di principio che fa da premessa necessaria ad ogni discussione sulle misure specifiche da adottare: qual è il ruolo della formazione universitaria nella società contemporanea.

Per provare a rispondere a questa domanda, mettiamo subito sul tavolo le due opzioni opposte, entro cui si concretizzano diversi modelli di Università in giro per il mondo: la formazione universitaria (nel senso della higher education) può intendersi come un bene privato o come un bene pubblico. Le due risposte possibili sottendono altrettanti paradigmi contrapposti del sistema universitario, a loro volta riflesso di varietà contrapposte di sistemi economici e di welfare state. Vediamo le caratteristiche di ciascuno dei due modelli, per capire le possibili implicazioni relative alla scelta dell’uno o dell’altro.

Intendere l’istruzione universitaria come bene privato significa mettere al centro la sua funzione di servizio finalizzato alla trasmissione di conoscenze a beneficio del singolo che le acquisisce. Il singolo trae (o si aspetta di trarre) un guadagno dall’istruzione universitaria che si concretizzerà in una posizione lavorativa desiderata, in un reddito più elevato o anche solo nella soddisfazione di un personale bisogno culturale. In questo senso l’alta formazione è un bene immateriale che l’Università produce per i singoli che ne fanno domanda.

Se la natura “privata” della formazione universitaria sembra piuttosto intuitiva, la sua definizione come bene pubblico è più complessa da dimostrare. La produzione, diffusione e riproduzione di conoscenze attraverso la formazione universitaria sono state qualificate da alcuni studiosi nei termini di beni pubblici globali (Stigliz 1999[1]), in quanto beni che presentano significative caratteristiche di non-rivalità (la conoscenza può essere “consumata” da più soggetti contemporaneamente) e di non escludibilità (i benefici derivanti dalla formazione universitaria non sono confinabili al singolo individuo che la acquisisce). Questo ha valore sia a livello intergenerazionale sia transnazionale (Kaul et al.,1999[2], pp. 2–3). La natura “non escludibile” dell’istruzione universitaria viene definita nella letteratura in riferimento ad aspetti differenti.

L’Università è stata ad esempio associata alle premesse di base della costruzione di una cittadinanza attiva e di una crescente democratizzazione della società, come luogo di produzione di un sapere critico e dei relativi conflitti all’interno di consolidati modelli di sapere e fra sistemi di conoscenze, opinioni e habitus di pensieri (Marginson 2011[3], p.419). Altri studi hanno cercato di misurarne le ricadute sociali positive al di là dei vantaggi individuali. Ad esempio, MacMahon ha proposto una quantificazione del valore dei benefici sociali della formazione universitaria (“social non-market benefits”) per singolo laureato. In riferimento al caso statunitense, l’economista americano mostra come la higher education contribuisca in maniera rilevante all’incremento delle capacità di innovazione industriale, alla crescita economica, alla riduzione dei livelli di diseguaglianza e di povertà, alla riduzione dei crimini e ai conseguenti minori costi legati ai sistemi carcerari, all’allungamento dell’aspettativa di vita della popolazione, alla maggiore sostenibilità ecologica e alla democratizzazione complessiva della società (MacMahon 2009[4], Cap. 5). Fra gli effetti sociali più rilevanti messi in evidenza dallo studio in questione, spicca la conclusione per cui “un maggiore accesso alla formazione universitaria tende a ridurre le diseguaglianze” (MacMahon 2009: 213), mentre sistemi in cui l’accesso all’Università è basato sui risultati delle prove di accesso, in cui i livelli di iscrizione sono bassi e la tassazione a carico degli studenti alta, tendono a perpetuare le diseguaglianze esistenti.

Ragioni teoriche ed evidenze empiriche concorrono quindi a definire la formazione universitaria come bene pubblico che, inseparabilmente dai benefici privati al singolo laureato, comporta allo stesso tempo molteplici e fondamentali ricadute positive per il sistema economico e la società nel suo complesso. Se questo è vero, c’è un’ulteriore caratteristica dei beni pubblici che bisogna evidenziare e che tocca direttamente le condizioni di accesso all’Università. La produzione di beni pubblici, infatti, non è realizzabile – o è realizzabile solo in maniera inefficiente –, attraverso i meccanismi di mercato basati sulla competizione e sul profitto. Infatti la domanda privata per tali beni, che sono appunto collettivi (quindi usufruibili da ciascuno indipendentemente dai costi sostenuti per procurarseli) sarebbe assente o insufficiente a sostenerne la produzione per la società nel suo insieme. Al contrario, quindi, è lo Stato che deve produrre i beni pubblici attraverso la fiscalità generale (Tilak 2009[5]: 451). In questo caso, ad esempio, una fiscalità fortemente progressiva garantirebbe il contributo preponderante degli alti redditi e patrimoni – anche di soggetti senza figli da mandare a scuola, o con figli iscritti alle Università private – all’accesso universale alla formazione universitaria, in particolare per le classi medio-basse.

Emerge così più nettamente la fondamentale tensione interna alla formazione universitaria. Se si limita la sua funzione a “bene privato”, allora diventa logico fare dell’Università un’azienda che produce servizi specifici dietro pagamento (sotto forma di contributi universitari). Se però si comprende la sua funzione più ampia come bene pubblico, allora la prospettiva va rovesciata: l’Università non è un’azienda che produce un servizio, ma un’istituzione responsabile della produzione e diffusione della conoscenza, il cui accesso deve essere reso il più possibile universale dallo Stato in virtù delle sue positive esternalità.

In concreto i sistemi universitari tengono insieme al loro interno i due pun
ti di vista contrapposti, in misura e modalità differenti. Volendo essere schematici, i due estremi privato-pubblico possono essere calati nella realtà riferendosi alla contrapposizione fra il modello anglosassone e quello tedesco-scandinavo, per quanto in entrambi vi siano differenze nazionali rilevanti. Da una parte vi è un modello “di mercato” come quello di Stati Uniti e Regno Unito in cui, specialmente nell’ultimo decennio, si è assistito a un forte incremento delle tasse universitarie corrispondente a una riduzione dell’intervento pubblico, alla diffusione di forme di sostegno allo studio basate sul prestito d’onore e sull’indebitamento crescente degli studenti, con un corrispondente intensificarsi delle disuguaglianze sociali nell’accesso alla formazione universitaria. Dall’altra un modello come quello diffuso nei Paesi scandinavi e in numerosi Länder tedeschi che, per quanto non esente al suo interno da logiche di mercato più o meno pronunciate, si basa in larga parte sull’accesso gratuito all’Università, garantito dalla fiscalità generale, e a forme di diritto allo studio sostenute in misura preponderante dallo Stato. In questi sistemi i costi sostenuti dallo Stato tramite la fiscalità generale per consentire l’accesso universale alla formazione universitaria sono ampiamente compensati dal ritorno sul lungo termine in termini di crescita economica, produttività e innovazione, che si traducono in redditi più alti in grado di sostenere una maggiore pressione fiscale e minori spese di previdenza sociale (Van Damme 2016[6]). Un simile modello è evidentemente parte di un sistema più ampio e integrato di politiche industriali e welfare, che vede un forte ruolo del settore pubblico e del rapporto pubblico/privato in cui l’Università e la ricerca giocano un ruolo centrale nella produzione ad alto valore aggiunto.

Fra le due varianti contrapposte, anglo-sassone e europeo-nordica, si collocano quei sistemi ibridi rispetto ai quali lo studio dell’OCSE mette in guardia sul rischio che non siano in grado di raccogliere i benefici dell’uno o dell’altro modello. Una conclusione che calza purtroppo bene con il caso italiano. Per quanto in Italia esista un sistema di borse di studio e di esenzioni dalla contribuzione universitaria (in particolare la no tax area sotto i 13 mila euro), il numero delle borse di studio è ancora largamente insufficiente a coprire tutti gli idonei (da cui la vergogna degli idonei non beneficiari di borsa di studio: il 24% secondo l’ultimo rapporto Anvur 2016[7]), mentre i livelli di contribuzione universitaria a carico delle famiglie degli studenti sono aumentati del 60% nell’ultimo decennio, con il maggiore carico di spesa da parte delle famiglie rispetto al totale dei finanziamenti dopo il Portogallo a livello europeo (Rapporto Anvur 2016: 292-3). Dati che vanno letti a partire dal basso numero di laureati in Italia (18%, peggio di così solo il Messico) rispetto alla media OCSE (37%)[8].

Per non parlare della formazione post-lauream, in particolare quella dottorale, considerata nel nostro ordinamento “l’ultimo e più alto livello di istruzione”. Come ha rilevato l’ultimo rapporto ADI, l’Italia è al penultimo posto in Europa per numero di dottorandi ogni mille abitanti (con lo 0,5), in peggioramento rispetto al 2012, mentre in almeno 31 atenei su 79 i dottorandi sono soggetti a una tassazione che può arrivare fino ai 4 mila euro all’anno[9]. In Italia si è assistito nell’ultimo decennio a quel processo di “privatizzazione” del sistema universitario e di trasformazione in conformità al modello anglo-sassone che ne ha determinato il ridimensionamento, la restrizione dei canali di accesso e del diritto allo studio, e più generalmente la messa in discussione come bene pubblico.

Da qui bisogna allora ripartire, chiarendo a monte quale debba essere la direzione da far prendere alla formazione universitaria in Italia. Le pressioni che la sospingono verso un modello ‘privatizzato’ appaiono oggi dominanti. I tagli lineari iniziati nel 2008, la riforma in senso aziendalistico delle Università introdotta con la legge 240 del 2010, la contrazione della spesa pubblica in formazione, ricerca e sviluppo, hanno risposto a un disegno culturale preciso, solo parzialmente spiegabile con le politiche di austerità imposte dall’Unione europea. Si tratta di un disegno che prevede un sistema universitario ristretto, di natura elitaria, con una rigida selezione (sociale) all’ingresso basata su chi può sostenerne i costi, concentrato in pochi settori e aree geografiche ritenuti più competitivi, senza una vera e propria cabina di regia statale, ma sempre più rispondente alla domanda (scarsa) di un settore imprenditoriale poco incline all’innovazione. Secondo questo modello la formazione universitaria è un esclusivo “bene privato”. Con tutti i suoi effetti deleteri per la crescita, il welfare, la lotta alle diseguaglianze sociali e la democrazia stessa nel nostro Paese.

NOTE

[1] Stiglitz, J. (1999) Knowledge as a Global Public Good. In I. Kaul, I. Grunberg and M. Stern (eds.), Global Public Goods: International Cooperation in the 21st Century. New York: Oxford University Press, pp. 308–325.

[2] Kaul, I., Grunberg, I. and Stern, M. (eds.) (1999) Global Public Goods: International Cooperation in the 21st Century. NewYork: Oxford University Press.

[3] Marginson 2011, Higher Education and Public Good, Higher Education Quarterly, 0951–5224. Volume 65, No. 4, October 2011, pp 411–433.

[4][4] MacMahon 2009. Higher Learning, Greater Good. The Private and Social Benefits of Higher Education. Baltimore: Johns Hopkins University Press.

[5] Tilak, J. B. G. 2009. “Higher education: a public good or a commodity for trade?”. Prospects, December 2008, Volume 38, Issue 4, pp 449–466.

[6] https://medium.com/@OECD/who-pays-for-universities-taxpayers-or-students-6c7f3a948b28

[7] Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca 2016, p. 342: http://www.anvur.org/index.php?option=com_content&view=article&id=1045&Itemid=708&lang=it

[8] http://www.oecd-ilibrary.org/education/education-at-a-glance-2017/italy_eag-2017-54-en

[9] VII Indagine su dottorato e post-doc 2017. ADI – associazione dei dottorandi e dottori di ricerca italiani: https://dottorato.it/content/vii-indagine-adi-su-dottorato-e-post-doc

(5 gennaio 2018)



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