Uno, nessuno, Caravaggio

Mariasole Garacci

La lunga stagione calda del IV centenario della morte del Merisi (Milano 1571 – Porto Ercole 1610) è entrata nel vivo con l’apertura dell’attesa mostra alle Scuderie del Quirinale. Alcune riflessioni sul grande evento.

Di origine ebrea, sopravvissuto alle drammatiche esperienze della seconda guerra mondiale da poco conclusa, l’ultraottantenne Bernard Berenson scriveva nel suo breve saggio sul pittore lombardo: “Caravaggio ha cessato d’essere una categoria o una specie” dopo lunghi decenni (secoli, anzi) in cui “qualsiasi tela presentasse, in forti contrasti di luce, volgari e obesi giganti sacrilegamente atteggiati a Cristo o ad apostoli, figure con piumacci, baraonde di uomini e di donne dall’aspetto vizioso e alticcio, giovinastri occupati a giocare a dadi o a barare alle carte, o più dignitose scene di concerti, veniva senz’altro attribuita a lui”. Si era all’indomani della storica mostra sul Caravaggio e i caravaggeschi (Milano, aprile-giugno 1951) che sancì definitivamente la gloria del pittore (e di Roberto Longhi), involontariamente contribuendo (absit iniura verbo) a fondare quell’interpretazione populistico-rivoluzionaria cui il malinteso realismo del lombardo, in un’Italia post-fascista e in ripresa culturale, si prestava. Non si trascuri che ancora oggi qualche professore (non di storia dell’arte, però!) impasta i suoi corsi di letteratura italiana sul grande e inimitabile storico dell’arte e critico novecentesco con i tocchi impressionistici di un Caravaggio “pasoliniano”. Per non parlare delle innumeri mostre in cui il Merisi appare furbescamente ad attirare visitatori (chi ricorda, ad esempio, quella del 2004 curata da Sgarbi a Mantova, Natura e Maniera. Le ceneri violette di Giorgione tra Tiziano e Caravaggio, sa cosa intendo), delle scoperte a sorpresa, delle fortune cinematografiche del pittore riproposto come eroico e tenebroso sex symbol nell’interpretazione dei bei fascinosi di ogni età, da Amedeo Nazzari nel 1941 ad Alessio Boni nel 2007.

Questo il Caravaggio nazional-popolare, mentre studi seri e rigorosi e una nutrita bibliografia stratificata nel corso del tempo oggi permettono una conoscenza veramente approfondita e oggettiva, nelle sue luci e nelle sue ombre -è proprio il caso di dire- di Michelangelo Merisi. Nel temporale di mostre, convegni e iniziative varie dedicate -come è giusto- al quattrocentesimo anniversario della morte dell’artista, che viene in un mercato ormai saturo a stuzzicare l’appetito di un pubblico ingozzato ma mai sazio di lui, non sono mancate polemiche e accuse di “eventismo”. Basti pensare al restauro ‘aperto’ dell’Adorazione dei pastori del Museo Regionale di Messina, finanziato dalla Camera dei Deputati, che Giuseppe Basile – direttore dei restauri della Cappella degli Scrovegni di Giotto a Padova e della Basilica di San Francesco ad Assisi dopo il terremoto del ‘97 – ha dichiarato inutile se non pericoloso: un’operazione di mecenatismo politico a buon mercato, condotta in vetrina sotto gli occhi dei passanti, trascurando interventi più utili.

Ora, rispetto ai tempi di Berenson – come dire, in questo caso, anni luce fa – quando si riteneva opera del lombardo la famosa Fiasca di Boston o i Quattro martiri di Palazzo Braschi, possiamo veramente dire che Caravaggio non è più “una categoria o una specie”? Al di là dei pericoli di una mitizzazione iconica da cui è doveroso difendere il dibattito storico-critico, la retrospettiva inaugurata alle Scuderie del Quirinale in questi giorni – curata da Rossella Vodret, soprintendente per il Polo Museale romano, e da Francesco Buranelli, segretario della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, affiancati dal Comitato Nazionale per il IV centenario della morte di Caravaggio guidato da Maurizio Calvesi  – ha certo il merito di basarsi sulla scelta intellettualmente onesta e impeccabile di prendere in considerazione soltanto un ristretto corpus di opere di sicura e documentata attribuzione (Rossella Vodret ha recentemente pubblicato Caravaggio. L’opera completa, in cui sono selezionati e presi in analisi sessantacinque capolavori documentati, citati da fonti contemporanee o unanimemente riconosciuti dalla critica, escludendo tutte le attribuzioni sub iudice). Una scelta che, come ha commentato Mina Gregori, “azzera cinquant’anni di studi”. E scorrendo i paginoni di giornale con l’ennesima cronaca delle intemperanze del Merisi tra i vicoli di Roma e la notizia delle migliaia di visitatori che hanno affollato nei primi due giorni le sale delle Scuderie, un po’ viene da pensare alle ironiche parole con cui Francis Haskell descriveva i preparativi delle grandi mostre commemorative del centenario della nascita o della morte di questo o quel pittore, trascurare il quale sarebbe come disattendere un imperativo morale.

L’impressione è che si sia preferito mantenere un profilo a basso rischio adatto, se vogliamo, alla circostanza ufficiale di un evento prettamente celebrativo e che non aggiungerà nulla sul piano scientifico. Un’operazione in realtà, proprio per questi motivi, pregevole, soprattutto qualora -come nelle intenzioni dei curatori- contribuisse a correggere e precisare la fisionomia che nell’immaginario del pubblico non specialista ha prepotentemente assunto Caravaggio con la sua affascinante avventura umana e la sua impressionante forza espressiva. “Ci interessava -così ha spiegato Rossella Vodret- restituire tutta l’integrità della straordinaria grandezza di Caravaggio. La continua estensione del catalogo delle sue opere, con la complicità di mostre e nuove attribuzioni, ha fatto perdere di vista l’eccelso livello della sua pittura”.

Le opere esposte sono ventiquattro (all’ultimo momento è stato annullato il prestito del Seppellimento di Santa Lucia di Siracusa) tra cui il Giovane con canestro di frutta della Galleria Borghese (1593), il Bacco degli Uffizi (1596 circa), la Canestra di frutta dell’Ambrosiana (1597); e poi Giuditta che decapita Oloferne di Palazzo Barberini (1599 circa), la meravigliosa Deposizione del Vaticano (1600 circa), il Riposo durante la fuga in Egitto (1595-96), il San Giovanni Battista – o forse Isacco? – dei Musei Capitolini (1602) recentemente oggetto di una leggera ripulitura. Non sono stati ottenuti, ed è un vero peccato considerando che molti dei capolavori presenti in mostra sono normalmente visitabili presso le chiese e i musei di Roma, opere mature come la Morte della Vergine del Louvre (1605-1606), le Sette opere di Misericordia di Napoli (1606), la Resurrezione i Lazzaro di Messina (1608-1609) e la Decollazione di san Giovanni Battista de La Valletta (1608). Sarà invece in mostra la Conversione di Saulo (1600) della collezione privata Odescalchi, prima versione della pala eseguita per la cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo a Roma.

Passati i clamori e le celebrazioni, deposte le lire e taciuti i peana, nell’immaginario dei tanti che visiteranno la mostra e, si spera, si spingeranno quindici minuti di cammino più in là a Santa Maria del Popolo o a San Luigi de Francesi, resterà qualcosa di più e di diverso dei ragazzacci di vita leziosamente coronati di pampini, dei manigoldi stravolti, dei derelitti dai piedi sporchi, dei vecchi santi dalla testa pelata e rugosa? Si riuscirà a spiegare chi sono costoro e da d
ove vengono? Verso quali lontananze, nello spazio e nei ricordi del pittore, si apre l’umido paesaggio serotino del Riposo o del Sacrificio di Isacco? E, insomma, chi è stato Caravaggio: un fiore carnoso mostruosamente germogliato dal nulla? Veramente un eccelso pittore, un maestro? E perché?

Caravaggio
20 febbraio – 13 giugno 2010
Roma, Scuderie del Quirinale – Via XXIV Maggio, 16
Orario: da domenica a giovedì, 10.00 – 20.00; venerdì e sabato, 10.00 – 22.30
www.scuderiequirinale.it

(22 febbraio 2010)

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