Usa, no discriminazioni a LBGTQ sul lavoro: la Corte Suprema torna neutrale?

Elisabetta Grande

Mentre la Corte Suprema degli Stati Uniti decide di non decidere una questione bollente – quale, ai tempi della morte di George Floyd, si presenta l’immunità qualificata accordata da tempo alle forze dell’ordine per proteggerle nei confronti delle azioni civili intentate dalle vittime dei loro comportamenti violenti – lunedì 15 giugno il supremo organo giudiziario del paese decide invece di tutelare gli LBGTQ (Lesbian, Bisexual, Gay, Transgender, Queer o Questioning) nei luoghi di lavoro. E ciò perlomeno tutte le volte in cui l’orientamento sessuale costituisca la ragione del licenziamento del lavoratore. “Un datore di lavoro che licenzi una persona solo perchè gay o transessuale viola la legge”, ha scritto a nome della maggioranza – che si è imposta per 6 voti su 3 – il giudice Neil M. Gorsuch, interpretando il titolo VII del Civil Rights Act del 1964, che vieta la discriminazione sul lavoro fondata su razza, religione origini nazionali o sesso.

Si tratta di una decisione ad un tempo attesa e sorprendente.

Fino a domenica 14 giugno, in più di metà degli Stati americani chi si fosse dichiarato gay o transessuale poteva essere legittimamente licenziato su due piedi, perché la discriminazione sessuale vietata dal titolo VII del Civil Rights Act era sempre stata interpretata come riguardante il genere, non l’orientamento sessuale. Ancora oggi è questa l’interpretazione che con forza viene proposta per la minoranza dissenziente dal giudice Samuel A. Alito, che ritiene che con la sua pronuncia la Corte abbia esorbitato dalle sue prerogative esercitando una funzione che spetta ad altri, ossia al legislatore. Se avesse voluto vietare la discriminazione sul lavoro relativa all’orientamento sessuale, il Congresso avrebbe dovuto emanare una legge sul punto, scrive Alito; non spetta secondo lui, infatti, alla Corte leggere quel divieto in una norma che non lo contempla esplicitamente. È insomma la vecchia questione relativa al ruolo dell’interprete, se solo dichiarativo o anche attributivo di significato rispetto a una norma di legge, con tutto ciò che la discussione implica in termini di politicizzazione dei giudici e di possibili conflitti di attribuzioni fra poteri dello Stato.

Che i giudici e in particolare la Corte suprema americana si siano conquistati da tempo un ruolo politico è indubbio, anche se il fenomeno è in qualche maniera maggiormente accettato quando la Corte esercita un controllo di costituzionalità sulle leggi, ciò che in questo caso non è avvenuto giacchè nella presente circostanza essa ha operato semplicemente come organo di interpretazione di una legge federale di ultima istanza.

La lettura che la Corte Suprema ha dato lunedì 15 giugno del titolo VII del Civil Rights Act del 1964 è comunque in sintonia con una tendenza – questa sì espressa attraverso successive dichiarazioni di incostituzionalità da parte sua – in atto almeno a partire dall’inizio di questo secolo. Per questo motivo la decisione era attesa.

Se, infatti, fino ai primi anni del 2000 gli Stati Uniti si presentavano particolarmente arretrati sotto il profilo del riconoscimento giuridico di pari dignità e status a chi avesse un orientamento sessuale difforme rispetto a quello etero (significativamente indicato come “straight”, ossia dritto, quindi giusto), a partire dal 2003, proprio grazie al nuovo orientamento della Corte Suprema, si assiste a una rapidissima inversione di rotta. Nel giro di pochi anni si passa dalla legittima applicazione di una sanzione penale nei confronti di chi avesse messo in atto comportamenti sessuali non convenzionali, al diritto a sposarsi fra persone dello stesso sesso, transitando per una serie di battaglie a livello statale, che quel diritto avevano cercato di limitare anche attraverso referendum popolari con i quali, come in California, era stata addirittura modificata la costituzione statale pur di non permettere il matrimonio a chi non fosse “straight”.

Lawrence v. Texas – la decisione con cui nel 2003 la Corte Suprema americana ha dichiarato incostituzionali le sodomy laws (ossia le leggi con le quali alcuni Stati punivano ancora l’amore non ortodosso), annunciando che in base al XIV emendamento “nella propria camera da letto ciascuno può fare quello che vuole” – e Obergefell v. Hodges – che nel 2015, in base allo stesso emendamento, ha sancito l’incostituzionalità di qualsiasi divieto nei confronti di matrimoni omosessuali- costituiscono le pietre miliari di una nuova sensibilità verso il pieno riconoscimento della libertà di orientamento sessuale dell’individuo, che la Corte Suprema ha contribuito a produrre nell’opinione pubblica statunitense. E’ per questo motivo che una pronuncia di diverso tenore rispetto a quella appena emanata in relazione al titolo VII del Civil Rights Act, che garantisce agli LGBTQ una tutela a dir poco ormai ovvia, sarebbe parsa oggi fuori luogo, quindi inattesa.

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La sorpresa per la decisione di lunedì della Corte Suprema statunitense sta, infatti, altrove e precisamente nella presa di posizione di Neil Gorsuch, estensore – come si è detto – dell’opinione di maggioranza. Gorsuch, com’è noto, è stato il primo giudice della Corte Suprema a ricevere la nomina da Donald Trump e fin dalla pronuncia sul famoso travel ban, con cui è stato immediatamente messo alla prova, ha dimostrato fedeltà assoluta al Presidente. Oggi, però, ha deciso contro la linea politica inaugurata negli ultimi mesi dall’amministrazione Trump, che ha assunto invece un atteggiamento chiaramente ostile e di ritorno al passato rispetto alla tutela dei diritti LBGTQ. Non soltanto, infatti, con il momentaneo beneplacito della Corte Suprema e dello stesso Gursuch, Trump ha rovesciato la decisione del 2016 di Obama di ammettere al servizio militare anche i transessuali. La scorsa settimana, seguendo il disegno di ridurre la protezione contro le discriminazioni sessuali alla pura questione del genere in tutti i settori amministrativi, il suo dipartimento della sanità ha addirittura tolto ai transgender il diritto a non essere discriminati in quanto tali nei rapporti con i dottori, gli ospedali e le compagnie assicurative.

Dimostrazione di una indipendenza di pensiero che fa ben sperare per il futuro, quella del giudice Gorsuch, o definitiva e ineludibile presa d’atto che rispetto al riconoscimento di pari dignità sociale di tutti gli individui, indipendentemente dal loro orientamento sessuale, non è davvero più possibile tornare indietro? Qualunque sia la risposta, c’è finalmente di che rallegrarsi.

(19 giugno 2020)





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