Usi, costumi e social network

Carlo Scognamiglio

Il cosiddetto “virtuale” non è altro che un processo reale, con cause ed effetti reali. Ogni applicazione tecnologica, nell’atto stesso in cui viene adottata, ci trascina in pratiche d’uso quotidiano, e con ciò ci modifica. Ma avviene anche il contrario: il modo in cui noi facciamo uso degli strumenti digitali ne determina lo sviluppo. Un’indagine antropologica sulle relazioni ai tempi dei social network.

Quando si parla di social network, il pensiero vola a Facebook, Twitter, LinkedIn o Instagram, immediatamente individuati come le più comuni piattaforme di condivisione e socializzazione online, almeno qui in Italia. Chi non possiede un profilo su uno di questi network, tende a credere – sbagliando – di non avere una vita “social”, preferendole una socialità reale. Ma altre applicazioni di condivisione, del tutto equiparabili a quei colossi, e spesso più intrusive e finanziariamente ad essi riconducibili, sono numerose e iper-utilizzate. Basti pensare a WhatsApp e Youtube. Anche nella scuola, i social educativi sono sempre più diffusi e contribuiscono non poco a modificare la relazione educativa.

Negli ultimi anni sono stati pubblicati centinaia di saggi, scientifici o popolari, orientati a delineare le mutazioni sociali e culturali derivate dall’inserimento nelle nostre vite delle pratiche di socializzazione telematica. Si tratta per lo più di prospettive che hanno inteso mantenere un dualismo tra il piano della piazza reale e quello della piazza virtuale, con toni anche polemici, in molti casi. Angela Biscardi e Vincenzo Matera invece, in un nuovo libricino pubblicato da Carocci (Antropologia dei social media. Comunicare nel mondo globale), hanno provato a studiare il fenomeno con gli strumenti dell’antropologia culturale, concentrandosi opportunamente su un mondo solo: quello in cui viviamo, nel quale il cosiddetto “virtuale” non è altro che un processo reale, con cause ed effetti reali.

Il primo problema, sottolineano gli autori, è che persistendo nel distinguere un mondo vero da “fittizie” dinamiche digitali, noi possiamo avere il pieno controllo di esse, e decidere come e quando “spegnere”, come e quando farci influenzare. Ogni applicazione tecnologica, nell’atto stesso in cui viene adottata, ci trascina in pratiche d’uso quotidiano, e con ciò ci modifica. La sua stessa presenza determina cambiamenti nei costumi, ma anche nei rapporti umani. Scrivono gli autori: “nessuno certo avrebbe scritto e imbucato, trent’anni fa, una lettera per chiedere ad un docente universitario in che aula si sarebbe svolta la lezione del corso che avrebbe dovuto frequentare il giorno dopo; la rapidità del mezzo posta elettronica consente di farlo e anche di aspettarsi una risposta” (p. 32), ma proprio questa possibilità, si fa notare, determina nuove percezioni della relazione stessa. I ruoli si ridefiniscono e vengono naturalizzati nella nuova configurazione. La distanza educativa tra docente e discente è stata così ridotta dall’esistenza stessa della tecnica.

L’elemento interessante è tuttavia dialettico. Perché ogni gesto si innesta in una rete di altri gesti e di tradizioni, e così i costumi locali modificano a loro volta i possibili usi della tecnica. I social network sono essi stessi modificati dal mondo, che li plagia in base alle proprie esigenze: “scattare una foto col telefonino è ovunque la stessa operazione; in Cile è molto in voga fotografarsi i piedi per esprimere uno stato di relax e di comodità, mentre in Italia il selfie privilegia altre parti del corpo. Questa è sicuramente una scelta culturale” (p. 74).

Nell’ultima parte del libro c’è poi il resoconto della ricerca sperimentale condotta su un gruppo di adolescenti tenuti in astinenza da social per una settimana. Un dato interessante, leggendo i diari di chi ha resistito e di chi ha mollato, è il rapporto col tempo, anch’esso modificato dalla tecnica. Emerge bene da questa indagine la funzione di “riempitivo” dei vuoti temporali assunta dai social. Per un verso è vero che rubano tempo, perché a volte anche per una forma di pigrizia operativa si indugia in quelle comunicazioni o sbirciatine ben oltre il necessario, ma più spesso l’uso dei social occupa interstizi temporali che altrimenti resterebbero completamente liberi. Ed è questo il dato interessante. Ogni vuoto viene riempito dal qualcosa.

Scopriamo allora quello che è forse il vero valore sociale che inconsciamente attribuiamo a questa tecnologia, forzandola ad obbedire a una nostra necessità interiore: quella di non pensare, di sfuggire al momento vuoto, non produttivo, e dunque – nel nostro quadro sociale – di per sé negativo. Il social trasforma il vuoto in intrattenimento. In tal modo, esso esorcizza la morte, in modo simbolico, in modo del tutto invisibile.

È una cosa che si può fare in tanti modi, quella di allontanare il pensiero della morte. Ad esempio aggiungendo orizzonti di senso alla vita stessa. Con l’arte, con la passione politica, con l’edonismo, con la dedizione scientifica. Tuttavia, come scrivono gli autori del libro: “non sembra che queste generazioni siano state abituate a progettare i propri spazi e il proprio tempo e a convertire gli spazi vuoti in momenti di creatività individuale o in spazi di libertà; piuttosto ricercano spontaneamente un’immediata e gratificante modalità di consumo, divertente e poco impegnativa” (p. 112).

Da quel che posso osservare intorno a me, fanno lo stesso anche gli adulti, e forse anche più dei ragazzi. Probabilmente perché più stanchi, più sfiduciati, più disorientati dal violento processo di atomizzazione sociale, che ha colpito le nostre società in quest’ultimo quarto di secolo. Il social, pertanto, non rappresenta solo la fuga dal vuoto, ma è la ricerca di una nuova modalità di aggregazione, magari un surrogato, una comunità più semplice da comporre e da sciogliere, una socializzazione liquida. Alla fin fine, ci vuol poco ad “abbandonare” il gruppo, e ripartire da zero.

Abbiamo dunque il sintomo di un problema sociale enorme come lo sgretolamento dei legami tradizionali, ma tale sintomo ne è anche in certo modo la causa, e in ultima istanza si propone come terapia. Un fenomeno, dunque, da seguire e studiare con straordinaria attenzione.

(22 ottobre 2019)




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