Venezuela, il fallimento del chavismo viene da lontano (e insegna qualcosa anche a noi)
Giuliano Garavini
Negli ultimi 40 anni il Venezuela (ventennio chavista incluso) è stato nel complesso un Paese peggiore rispetto agli anni del boom economico successivo alla seconda guerra mondiale perché è rimasto sempre ancorato al modello del "capitalismo rentistico" dipendente dal mercato internazionale: incapace di creare uno sviluppo autonomo e di sottrarsi alle politiche estrattiviste. Gli attuali scontri tra il governo Maduro e le opposizioni eterodirette dagli Usa ci dimostrano che quello di Chavez non è mai stato un Paese socialista.
Quando sono stato a Caracas, per la mia prima e ultima volta, Chavez era vivo e riscuoteva grande consenso.
Degli amici mi sono venuti a prendere all’aeroporto. "Per carità, non prendere un taxi". Insieme a una città decadente e a un traffico infernale, ho visto una funicolare urbana all’avanguardia, le baraccopoli rallegrate dalle vernici regalate dal Governo, clown agli incroci a stemperare gli animi di automobilisti isterici. Più di una volta ho ascoltato il sermone domenicale di Chavez in Alò Presidente, trasmissione nella quale ministri e comuni cittadini si confrontavano su ogni tema, dall’edilizia popolare alle cooperative agricole.
Forse, mi sono detto, il socialismo in America Latina è fatto anche di grattacieli invasi da vegetazione e inquilini abusivi. Oggi, con qualche lettura in più, posso dire due cose. La prima è che il Venezuela di Chavez non è mai stato un Paese socialista. La seconda è che il Venezuela degli ultimi 40 anni (ventennio chavista incluso) è stato nel complesso un Paese peggiore di quello dei primi 40 anni dopo seconda guerra mondiale (incluso quasi un decennio di dittatura militare conservatrice).
Per capire perché Chavez non ha potuto far di meglio che dare mano di vernice socialista ad un edificio pericolante bisogna partire da lontano, precisamente dal 1920. Quella data segna allo stesso tempo l’avvio della produzione petrolifera in Venezuela e la trasformazione di un territorio privo di un governo centrale che a stento sostentava una popolazione sparsa, in un Paese moderno, dotato di istituzioni statuali solide, i cui cittadini vantavano livelli di benessere tra i più alti del continente. Nel 1929 il Venezuela è diventato il più grande esportatore di petrolio al mondo, e tale è rimasto fino alla fine degli anni ’60. Negli anni ’70 Caracas era considerata la Parigi dell’America Latina e un professore universitario venezuelano guadagnava più di un suo omologo in Germania occidentale.
Per farla breve, il Venezuela dopo il 1920 è diventato un "petrostato". Un petrostato è un Paese che esporta quasi unicamente petrolio e dove le entrate da queste esportazioni rappresentano una quota molto significativa dell’economia. Ancora nel 2008 in tutti i Paesi dell’OPEC, organizzazione della quale il Venezuela è stato il principale artefice, la quota delle esportazioni petrolifere sul PIL era superiore al 50%. La giusta definizione del modello economico di un petrostato è, come insegna il decano degli economisti venezuelani Asdrubal Babtista: "capitalismo rentistico". I petrostati traggono il proprio benessere dall’esistenza di un mercato petrolifero internazionale dal quale attingono risorse per importare prodotti agricoli e ogni altro bene necessario (incluso, spesso, forza lavoro).
Se a definire un Paese socialista o meno bastasse il modo in cui la è redistribuita rendita petrolifera fra i cittadini, gli Emirati, il Kuwait e perfino l’Arabia Saudita (dove peraltro è stato creato un settore petrolchimico all’avanguardia), sarebbero esempi di socialismo più compiuto di quello venezuelano: hanno fornito ai propri cittadini migliori infrastrutture, educazione pubblica o sovvenzionata, un sistema sanitario gratuito e di buon livello, salari alti e un tetto più che decente sulla testa di oguno. Nel Golfo le baraccopoli non esistono, nemmeno per gli immigrati senza diritti.
Attorno al 1980 il modello rentistico venezuelano è entrato in crisi, e da questa crisi non si più ripreso. Insieme rendita alla petrolifera, diminuita anche per la debolezza dei prezzi del petrolio, hanno cominciato a tracollare tutti i principali indicatori del benessere della popolazione: i salari reali, la stabilità monetaria, le case per abitante, la sicurezza. Per reagire a questa crisi le classi dirigenti delle principali forze democratiche che hanno governato il Paese dal 1959 (Puntofijismo) hanno seguito le direttive neoliberiste in voga all’epoca aumentando l’indebitamento, tagliando spesa pubblica e aprendo agli investimenti stranieri nel settore petrolifero (già nazionalizzato a metà anni ’70); con il risultato che il Paese si è avvitato in una spirale di impoverimento e miseria che ha portato fino all’elezione di Chavez nel 1998.
Chavez ha avuto un ruolo importante nel risollevare il Venezuela dall’abisso economico, sociale e morale in cui era Paese precipitato negli anni ’90.
Il comandante è stato anche baciato dalla dea Fortuna. I prezzi del petrolio hanno cominciato a lievitare a partire dal 2002 con il risultato che fino al 2014 il Venezuela ha goduto di immenso aumento della rendita petrolifera pari ad oltre 3 volte il suo PIL del 2002. Chavez ci ha messo del suo. Non perché, come dice qualcuno, abbia rilanciato l’OPEC. L’OPEC è riuscita a determinare i prezzi del petrolio solo per un brevissimo periodo negli anni ’70. Il nuovo Governo ha però revocato contratti capestro, imperniati su trattati di investimento bilaterale siglati negli anni ’90 dalla società petrolifera nazionale (PDVSA) con alcune società petrolifere straniere, con ciò riaffermando la sovranità fiscale del Venezuela.
Chavez ha incarnato, assieme ad altri leader della sinistra latinoamericana, l’idea di un mondo multipolare con una più intensa cooperazione economica e politica fra i Paesi dell’America Latina. Ha utilizzato parte significativa della gigantesca rendita petrolifera in favore dei ceti più disagiati, contribuendo a ridare dignità e diritti anche ai gruppi etnici più marginali, come i venezuelani di origine africana e le donne. Sono stati ottenuti significativi successi sul piano della riduzione della povertà e dell’alfabetizzazione, come anche nell’aumento, non tanto della qualità dell’istruzione secondaria quanto della platea dei beneficiari.
Senza entrare nel merito delle "missioni" sociali del chavismo, la questione per me derimente è: le iniziative chaviste hanno fatto del Venezuela un Paese socialista? La mia riposta è netta: no il Venezuela è rimasto ancorato al modello del "capitalismo rentistico", alle dipendenze delle bizze del mercato internazionale, incapace di uno sviluppo autonomo.
Anche nel settore petrolifero il Governo chavista ha fatto degli errori madornali. Per esempio la nazionalizzazione di alcune società "di servizio" nel settore petrolifero ha portato ad una riduzione della produzione dai giacimenti di petrolio di migliore qualità, con una produzione complessiva che è passata da 3,3 milioni di barili al giorno nel 2009 a 2,7 nel 2015. Questa riduzione ha avuto conseguenze disastrose a partire nella seconda metà del 2014, quando i prezzi del petrolio si sono più che dimezzati, passando da una media di 100 ad una 50 dollari al barile. Il capitalismo rentistico venezuelano, già in difficoltà, è piombato immediatamente in un baratro ancora più profondo di quello del 1980: con iperinflazione, cambio totalmente impazzito e conseguente scarsità di beni di consumo, immiserimento della popolazione. Mentre per la prima crisi del capitalismo rentistico venezuelano ci sono voluti 60 anni, dal 1920 al 1980, a Chavez ne sono bastati meno di 15, dal 2002 al 2014.
Maduro, che ha sostituito Chaves nel 2013, per vincere la crisi non ha saputo fare di meglio che ipotizzare nuove massicce iniezioni di rentismo con l’aiuto di privati e compagnie internazionali. Ne è un esempio il progetto AMO che riguarda investimenti nelle sabbie bituminosi e minerali vari nell’Orinoco. Per finanziare il disavanzo il Venezuela è passato da un debito di 37 miliardi di dollari nel 1998 a 123 nel 2016: tutti soldi che lo Stato è costretto a ripagare puntualmente, pena la confisca di carichi petroliferi e importanti investimenti all’estero come le raffinare CITGO. In una recente iniziativa, Venezuela Powerhouse, Maduro ha invitato a rilanciare la produzione interna, ma la composizione dei partecipanti la dice lunga: delle 481 imprese invitate il 18% erano pubbliche, il 36% a capitale misto, il 50% private. Cosa hanno a che fare queste iniziative di Maduro con il socialismo?
E’ certo che sia in America Latina gli Stati Uniti le destre latinomericane reclamano lo scalpo del chavismo. Sarebbe una vittoria contro chiunque metta in discussione il dominio incontrastato della libertà di investimento, contro i tentativi di cooperazione economica in America Latina e contro qualunque Governo che rifiuti di far pagare il conto della recessione economica unicamente alle classi popolari. I ricchi del Venezuela (quelli con decine di BMV nel garage che, come ho sperimentato, si sono mischiati a suo tempo anche ai chavisti) non aspettano altro che far dimenticare l’idea che la rendita petrolifera possa essere redistribuita a beneficio della maggioranza.
Detto questo, se lo scalpo chavista cadrà in mano a Trump (e bisogna sostenere con forza i tentativi di mediazione di Zapatero e del Vaticano perché questo non succeda), ciò accadrà principalmente per la debolezza del modello chavista: non è possibile creare un socialismo sovvenzionato dal capitalismo internazionale e dunque, fondamentalmente, alle sue dipendenze.
La vicenda del Socialismo del 21 Secolo immaginato da Chavez ha lezioni per tutti. Alla sinistra latinoamericana insegna che il capitalismo rentistico va maneggiato con estrema cautela. La rendita petrolifera dovrebbe essere utilizzata per investimenti collettivi (sulla salute, le case, la sicurezza) e non per sovvenzionare aziende e cooperative in perdita, andrebbe congelata nel periodo delle vacche grasse in previsione dei tempi di magra (come fa la Norvegia con il suo Fondo sovrano), e comunque andrebbe regolata da istituzioni pubbliche trasparenti, limitando la produzione a livelli sostenibili per l’economia interna e per l’ambiente. Essere un petrostato è già abbastanza difficile senza doversi fingere socialisti.
Anche alle sinistre europee la vicenda venezuelana insegna non è possibile limitarsi alla redistribuzione delle risorse, secondo la tradizionale pratica socialdemocratica per la quale occorre prima creare ricchezza per poi redistribuirla in forma di salari e diritti. Una società più equa e più partecipata si può costruire solo attribuendo capacità decisionale e creativa ai lavoratori nelle aziende e ai cittadini nei servizi pubblici, e dimostrando che in questo modo si riescono a produrre beni e servizi più durevoli e di migliore qualità. Bisogna partecipare a rapporti di cooperazione internazionale che non funzionino secondo regole privatistiche: per esempio mai firmare accordi commerciali come il CETA che, in ultima analisi, implicano la rinuncia alla sovranità legislativa in materia fiscale e ambientale. Se il socialismo è solo redistribuzione della ricchezza, in un momento di recessione economica e stagnazione questo scompare completamente dall’orizzonte per lasciare il campo solo alle forze in grado di districarsi in quella legge della giungla che è il mercato.
(26 giugno 2017)
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