Vero per davvero, finto per finta: note da Cannes 2013

Fabrizio Tassi



Il cinema continua a superarci, per fortuna. Penso, ad esempio, a tutte le nostre chiacchiere leziose sul "realismo": mimetismo o verosimiglianza, con pedinamento o senza, votato al documento o alla narrazione.

La vie d’Adèle di Abdellatif Kechiche è così vivo e vero da non lasciare margini di pensiero. Puoi solo aderire, sentire la vita e la verità (addirittura) di ogni giorno e di tutte le ore, compresi i lunghi minuti vuoti di cui è fatta ogni vita-verità (ogni reale realtà) e tutti quei gesti soliti, quelle parole comuni e/o troppo importanti e/o fatalmente banali che messe insieme fanno anche le scelte più straordinarie e i momenti più intensi che ci capita di vivere (nella vita e dentro un film).

Leggi le recensioni, gli articoli, i blog, i post e capisci l’imbarazzo, la fatica di adeguare i concetti alla forza di un film del genere, che in fondo ha una trama così esile da essere quasi trasparente: una ragazza di nome Adèle cresce, sperimenta il sesso, scopre di desiderare le ragazze più dei ragazzi, si innamora di Emma, poi le cose si complicano, la storia sembra finita, insomma le cose che accadano spesso nella vita. Molti finiscono per intestardirsi sul tema, il "sesso lesbico" esplicito, l’amore libero, tutto quel godere e desiderare che però nel film non diventa mai un argomento, un soggetto da dibattito, è vita, punto e basta.

Il cinema ci supera e ci aiuta a capire senza bisogno di spiegarci come e perché. Metti ad esempio il docu-film in cui Rithy Panh va alla ricerca dell’immagine che manca (L’image manquant, appunto), della testimonianza definitiva, della verità comprovata. Torna a parlare dell’orrore seminato in Cambogia dagli Khmer Rossi, dell’utopia collettivista che divora gli individui e alla fine la stessa collettività. Manca l’immagine, e allora Rithy Panh la ricrea, costruendo pupazzi e ambienti platealmente fittizi nella forma e palesemente veri nella sostanza, teatri (non tribunali) della memoria che percorre con i propri ricordi, le parole e lo sguardo del cinema, tra brandelli di filmati d’epoca, con un effetto potente di verità.

Oppure c’è Jia Zhangke e il suo A Touch of Sin, un altro di quei film che capita di vedere una volta ogni tot anni, con esplosioni di violenza atipiche per l’autore cinese – a cui dobbiamo Platform, Still Life e 24 City (film invisibile ma importante nella ridefinizione dei nostri concetti di realismo, documento, fiction, verità del cinema) – con momenti di straniante ironia e di sospesa magia, ma soprattutto con uno sguardo sulla Cina che sa penetrare ben oltre le nostre consuete superficiali considerazioni sugli effetti devastanti di uno sviluppo frenetico (quasi un luogo comune ormai) o i saggi pensosi sul contrasto tra modernità e tradizione, tra metropoli e provincia, tra culto del progresso e cultura senza tempo. Jia Zhangke non spiega e non giudica, il suo cinema mostra, percorre, attraversa, illumina dall’interno, e in più è grande cinema.

Ecco la certezza che portiamo a casa dal Festival di Cannes: il cinema c’è, eccome, anche se non siamo sicuri di sapere per quale pubblico (un film di tre ore minuzioso, super-realista, sessualmente esplicito, un documentario cambogiano fatto di pupazzi e immagini d’archivio, uno strambo film cinese di due ore e un quarto…).

Poi, come spesso accade, è anche una questione di gusti, di sguardo, di sensibilità, che cambiano da un commentatore-spettatore-critico all’altro, inseguendo la definizione definitiva o il giudizio apodittico pro o contro, su Sorrentino o sui Coen, su James Gray o Claire Denis. Chi scrive ha molto amato il nuovo film di Asghar Farhadi, Le Passé, un melodramma famigliare (all’incrocio tra costumi francesi e sensibilità iraniana) che ti prende e non ti molla più; ha apprezzato le malinconiche odissee molto americane di Alexander Payne (Nebraska) e dei Coen (Inside Llewyn Davis); ha ritrovato con piacere Roman Polanski (La Venus à la fourrure è un altro notevole film da camera-teatro) ma anche Robert Redford (protagonista solitario di All is Lost); ha apprezzato anche il vituperato da molti Only God Forgives di Nicolas Winding Refn, per effetto di una misteriosa fascinazione visiva.

Vi risparmio l’elenco delle cine-delusioni: ci vorrebbe troppo spazio e si tratta di un gioco poco interessante. Mentre è molto interessante il modo in cui si è presentato il cinema italiano, dalla rivelazione Salvo al film di Valeria Golino, passando per il nuovo azzardo di Paolo Sorrentino, La grande bellezza, che sta sulla sponda opposta del cinema di un Kechiche, che pratica l’accumulo, il frammento, la deformazione, il movimento perpetuo, che ha cadute notevoli e momenti altissimi: il film-affresco che ci aspettavamo da un regista che a volte ci prende in pieno (Il divo) e a volte per niente (This Must Be the Place) ma di certo non ha paura di osare, e alla fine consegna allo spettatore momenti di verità che brillano, spiccano dentro il fittizio spinto, il plastico cinismo, la mascherata carnevalesca di cliché umani italioti post-borghesi e post-romani.
Alla prossima.

(27 maggio 2013)



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