Violenza e letteratura. Risposta a Roberto Saviano

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Sono un dottorando italiano, poco più giovane di Saviano e, come molti precari della ricerca, sto studiando all’estero, a New York. Vorrei esprimermi sui fatti di Roma del 14 dicembre. Mentre leggevo i resoconti, che sono stato felice di trovare sul Washington Post o sul Wall Street Journal, pensavo che tra due settimane sarò disoccupato, ma la mia domanda principale non sarà “Partire o restare?” come suggerito dalla trasmissione di Fabio Fazio e Roberto Saviano Vieni via con me, bensì come sopravvivere senza vendere la mia dignità, ovunque io sia – negli U.S.A., in Italia o altrove. Non sarà facile: la minaccia della disoccupazione, o l’intermittente assenza di reddito cui il precario è sottoposto servono anzitutto a disciplinare la nostra personalità e il nostro pensiero. Le istituzioni culturali e di ricerca, in una complessa connessione con quelle politiche (ovunque piuttosto decrepite) tracciano confini tra ciò che è benvenuto e ciò che è sgradito nelle comunità del sapere, e forniscono spesso mezzi di sussistenza, nella già grave penuria delle risorse, anzitutto a chi è bravo a non oltrepassarli. Alla selezione di classe determinata dai costi sempre maggiori per accedere all’istruzione si aggiunge così l’addomesticamento del pensiero attraverso i meccanismi di cooptazione. Ciò vale anche per la politica, per il giornalismo, per la letteratura. Attraverso la prostituzione sistematica del pensiero e della scrittura una democrazia parlamentare può essere più blindata di una dittatura.

Mi sono sempre chiesto se Saviano si ponga questo problema. Penso che tutti coloro che scrivono debbano porselo continuamente. In questi anni sono stato a stretto contatto con la diaspora dei ricercatori italiani – in Germania, in Francia, in Inghilterra, negli Stati Uniti – e mi sono reso conto che una domanda attraversa continuamente quelli che sono stati definiti, con una strana espressione, cervelli in fuga: “Quali sono le cause dell’attuale, deprimente, situazione italiana?”. La risposta più comune è quella dell’esistenza di un “problema culturale” nel nostro paese. Una narrazione familiare ha aleggiato, ad esempio, attorno al picco di ascolti di Vieni via con me: la maggioranza “ignorante” rappresentata da Berlusconi opprimerebbe una cospicua minoranza “intelligente” – tra cui molti cervelli potenzialmente in fuga – rappresentata tra gli altri da Saviano; la spaccatura dell’Italia si situerebbe tra televisione dozzinale e letteraria, volgarità e cultura, denaro e “difesa dei valori”. Eppure chi scrive non é estraneo al mondo del denaro e non è immune dall’ignoranza, né parla necessariamente in modo libero. La cultura non è pensabile come un antidoto puntuale alla degenerazione politica, perché non è un ambito separato da tutto il resto. Essa è, a ben vedere, parte integrante del reale, anche quando esso ci disgusta. Nell’epoca dell’espansione planetaria di un mercato basato sull’informazione e sulla conoscenza, inoltre, non ci sono distinzioni nette tra economia e cultura: ogni fatto culturale è un fatto economico, ogni fatto economico ha una dimensione direttamente culturale, ed entrambi hanno, per questo, una valenza – e una responsabilità – immediatamente politiche. La condizione di ricatto economico del precario della ricerca o dello scrittore non sono che gli esempi più evidenti, perché più tradizionali, di una situazione che si è generalizzata nel mercato del lavoro.

Saviano ha condannato, con un’asprezza inedita, la rabbia giovanile esplosa a Roma contro questo stato di cose, oltre che contro l’immonda messinscena parlamentare della rinnovata fiducia a Berlusconi. Gli studenti che hanno rotto i divieti del Ministero degli Interni e hanno resistito alle cariche della polizia sono stati definiti dallo scrittore “idioti” e “imbecilli”. La ragione della condanna di Saviano è il ricorso alla violenza, e proprio per questo non ho potuto fare a meno di ricordare, per antitesi, la sua difesa pubblica, qualche mese fa, di un’altra scelta, molto più violenta: quella dei militari che, in cambio di un introito economico, partono alla volta dell’Afghanistan. Sembra quasi un consiglio ai prossimi disoccupati come me: partire per l’Afghanistan per ottenere denaro, puntando armi automatiche contro popolazioni lontane e sconosciute, sì; lanciare pietre contro i poliziotti e i finanzieri per cercare di manifestare fino al Parlamento, dove siedono i responsabili della deprimente situazione italiana, no.

Proverbiale è l’attaccamento di Saviano alla legalità e allo stato, e la sua ricambiata stima per le forze di polizia e per l’Arma dei Carabinieri; mi chiedo se per lui davvero la violenza possa essere giusta soltanto quando proviene da una divisa. Che ne sarebbe del mondo? Quale storia avremmo alle spalle? Basta in realtà guardare il presente, ad esempio il sostegno di Saviano a Israele: uno stato che, fino a prova contraria, fa non soltanto della violenza, ma della stessa illegalità internazionale quasi il criterio della propria pratica politica. La condanna legalitaria delle violenze di piazza cela così una concezione del diritto acritica, parziale e incoerente e, ciò che più è sospetto, in sintonia con le scelte militari e diplomatiche dell’Italia contemporanea. Per questo, credo, i palestinesi hanno disegnato Saviano sul Muro dei Territori Occupati, scrivendo accanto al suo volto “money” e “hypocrisy”; e per questo lo stato italiano e le sue forze armate, prima ancora dell’auditel, lo hanno candidato a rappresentante eminente, in pectore, dell’attuale letteratura italiana, anzitutto attraverso gli spettacolarizzati riconoscimenti del Presidente della Repubblica. Riconoscimenti di uno stato che da sempre è alleato della mafia, in modo strategico e ai più alti livelli istituzionali. Riconoscimenti che non vanno, si noti, a chi si oppone semplicemente alla mafia, ma a chi si oppone ad essa in un certo modo.

Per Saviano noi non abbiamo bisogno di un altro modo rispetto al suo, perché i principi sono già nella Costituzione, e occorre restaurare un’Italia ideale mai esistita piuttosto che guardare avanti in senso rivoluzionario, qualunque cosa ciò voglia dire. Si sbaglia: guardare avanti (e a cose che esistono davvero) è l’unica soluzione. In fondo la Costituzione e il Codice Penale sono a loro volta dei testi, e noi siamo in grado di pensare e scrivere dell’altro. Fare del rispetto della legge il suggello della propria poetica letteraria è un abominio. La letteratura ha senso quando rompe le regole e i codici, lasciando aperto lo spazio per l’inedito e per il nuovo: Pasolini, anche dopo la caduta moralistica sui “proletari in divisa” (chi ha detto che non si possa criticare, come nel caso dei professionisti dell’esercito, chi per denaro – e non per necessità, come mostra chi fa scelte diverse – si schiera contro il proprio simile?) non ha mai fatto di un quadro istituzionale il fine della sua attività di scrittore (al contrario!). Non l’ha fatto l’appena scomparso Monicelli. L’elenco degli altri sarebbe impietoso, perché svelerebbe che i picchi della nostra cultura passata, spesso cresciuta all’ombra della condanna e non dell’approvazione della politica ufficiale o dei vertici della polizia, sono oggi ridotti alla pubblicistica di uno scrittore tenuto in piedi non solo e non tanto fisica
mente, ma artisticamente, politicamente e moralmente dall’ausilio di una scorta.

È su queste basi che si giudicano la cultura e la letteratura? Sono questi i nuovi vati ed eroi, ammesso e non concesso che ne abbiamo mai avuto bisogno? Qui risiede l’ultima frontiera possibile, credo, di ciò che ancora oggi può essere definito un “problema culturale”. Otto secoli dopo Dante, il pane è ancora salato per lo scrittore, così come lo è per il precario della ricerca; ma quando c’è l’assalto ai forni, la geografia dei cervelli la descrive proprio la resistenza e non la fuga, mentre la creatività del pensiero mostra la sua incompatibilità con qualsiasi logica politica che trovi il suo perno nell’esecuzione degli ordini e nelle divise. Non è un fenomeno urbano, di piazza; è un discrimine senza il quale la letteratura non sarebbe neanche pensabile. Un antico merito delle barricate è sempre stato quello di far cadere qualche certezza di troppo sui vati, sugli idioti, sull’ignoranza. Ho sempre pensato che non sia l’istruzione a permettere di giudicare l’ignoranza altrui, perché ciascuno ha semplicemente conoscenze diverse; ma il gesto di sputare sentenze su ciò che non si conosce giustifica, credo, questa accusa, perché l’ignoranza coincide in fondo con l’assenza di umiltà. Fu un grande nome della nostra letteratura a scrivere che “il modo migliore per non rendere noti i confini del proprio sapere, è non mai oltrepassarli”; i limiti da oltrepassare dovrebbero essere altri, per chi scrive: quelli del consentito e del benvenuto nelle comunità già costituite del potere – militare, accademico, istituzionale – dietro il quale si cela sempre, palese o dissimulato, il rischio della prostituzione della letteratura. Grazie di cuore a tutte e tutti per il 14 dicembre.

Davide Grasso – PHD/Visiting Scholar presso la Columbia University di New York

(20 dicembre 2010)

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