Vittorio De Seta: lavorare per l’umanità
Giona A. Nazzaro
Il cinema di Vittorio De Seta appare quando in Italia la discussione sul neorealismo infiamma intellettuali e cineasti. Il reale, oggetto del contendere, a fronte delle mutazioni del cinema di Roberto Rossellini, è il fronte dal quale non si può e non si vuole retrocedere.
Con i suoi primi cortometraggi, De Seta chiarisce definitivamente che la realtà non esiste. O meglio: la realtà non è quella cosa di cui più o meno parlano e scrivono tutti. Il reale è il risultato di un lavoro che si compie con i mezzi del cinema sui materiali del mondo. Basti pensare alla rinuncia dell’apparentemente inevitabile voce fuori campo che, per dirla con Vincenzo Consolo, abbandona la prospettiva storicistica del neorealismo per diventare racconto verghiano.
Sono piccoli film quelli che realizza De Seta a partire dalla prima metà degli anni Cinquanta. Pescatori, minatori delle solfatare, i misteri della passione e poi la Barbagia, il cuore profondo della Calabria, questa è la gente che popola il suo cinema.
De Seta, aristocratico passato alla fila del PCI, però non è asservito a precetti ideologici. E non caso, lui seguace di Robert Flaherty e Joris Ivens, è sospettato di estetizzazione del reale e, cosa più grave ma conseguente al primo sospetto, di non accettare la prospettiva della lotta di classe come chiave di affrancamento della classe lavoratrice.
In De Seta ciò che conta è l’elemento dell’umano calato in un sud che si offre al suo sguardo come un mondo colto sull’orlo dell’estinzione (e questa è un’intuizione che condivide con Pier Paolo Pasolini).
Il suo sguardo coglie come per l’ultima volta corpi e gesti, una geografia umana e antropologica che nella sua commozione altissima nulla concede al sentimentalismo. Nelle inquadrature di De Seta vibra una commozione rinascimentale, sacrale. Ed è in questa profonda, irriducibile bellezza, che risiede il grande lascito politico del cineasta nato a Palermo nel 1923 e scomparso lo scorso 29 novembre.
Infatti, nel rivedere oggi i documentari di De Seta, ma è meglio definirli film, emerge chiarissima l’inquietudine di un intellettuale che alle porte del boom economico, e con tutte le conseguenze che questo avrebbe portato con sé, si confronta attraverso il cinema con la storia che cambia del proprio paese. Il suo è un cinema che sceglie di stare nella storia e di farsi attraversare da essa. Per questo motivo De Seta non aveva bisogno di abbracciare i grandi proclami ideologici. Lui nel mondo c’era dentro sino al collo. E dove, se non nei suoi film, il lavoro è stato colto e osservato con maggiore rispetto e commozione?
Il mosaico di gesti che compone la sua filmografia ci parla di un mondo appena trascorso che il suo sguardo ha colto alle prese con il fare. Alle prese con il lavoro. Il lavoro delle mani, la fatica dei corpi, come una preghiera arcaica e lontana: come un canto che si leva dalla terra stessa per tornare a noi come testimonianza. Eravamo qui. Anche noi siamo stati. E ora voi siete noi.
Sì, c’è del Caravaggio in De Seta, più che politica. L’ineludibile scandalo dell’umano. Uno scandalo che nulla può rimuovere o allontanare dalla storia. Ed è questo che oggi il cinema di Vittorio De Seta continua a ricordarci con la sua ferma e ineffabile dolcezza.
(3 dicembre 2011)
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