“We Are Who We Are” di Luca Guadagnino

Giona A. Nazzaro

Luca Guadagnino è una galassia in movimento. Quando sull’onda della nouvelle vague si discuteva di “politica degli autori” ci si riferiva – questo prima che chiunque fosse elevato al rango di “autore” e “rivalutato” – a quei registi il cui sguardo, al di là del contesto produttivo o della lettera della sceneggiatura, recava il segno di un mondo e, soprattutto, di un pensiero che trovava la sua espressione nel movimento del montaggio, nel taglio delle inquadrature, nel canto dei movimenti di macchina. Il cinema pensa e, miracolo!, il regista riesce a manifestare l’epifania di questo darsi come immagine di un lavoro che si compie davanti ai nostri occhi.

Bernardo Bertolucci nel corso di una conversazione ci confessava che lui pensava al suo cinema come a un “camera-sutra”, richiamando la nostra attenzione all’immenso piacere fisico dato dal rapporto del corpo e dello sguardo del regista con la macchina da presa. Luca Guadagnino, oggi, nel cinema contemporaneo, e non solo in Italia, è l’unico che osa rivendicare questo piacere come elemento fondante del (suo) fare cinema. Ed è un piacere che si dà nei fatti del fare cinema; nei fatti del processo lavorativo; nei fatti di una riscoperta perpetua delle cose del mondo attraverso il lavoro del cinema. Guadagnino, infatti, non è un esteta, quanto un materialista convinto che interagisce con la dialettica delle cose e del pensiero, lavorando non a chiudere (ossia a fornire risposte) ma a creare nuovi punti di fuga, di sguardo, di visione.

Nel raccontare la vita di un gruppo di adolescenti statunitensi all’ombra di una base Nato (situata fra Bagnoli di sopra e Chioggia) in forma di miniserie, Guadagnino compie immediatamente uno strappo che, con il procedere delle puntate diventa sempre più evidente: invece di accumulare “fatti”, ossia la strategia comune della serialità oggi, o di delineare “psicologie”, dilata lo spazio. Anzi, per citare William S. Burroughs del quale s’intravede fra le mani del protagonista una copia de I ragazzi selvaggi, volge il tempo in spazio. Le otto puntate non sono tanto un contenitore di storie quanto una deriva progressiva contenuta (o meglio: dilatata-liberata) in altre sotto-derive (basti pensare al magnifico concerto di Blood Orange al Locomotiv o alla festa nella villa abbandonata per fare solo due esempi).
Guadagnino è come se avesse trovato la forma per eccellenza non per trattenere le immagini ma per farle filtrare, colare al di là del perimetro delle inquadrature. La macchina da presa non è più al servizio di una sceneggiatura, ma segue il desiderio e i corpi, e disegna continuamente nuove traiettorie. Guadagnino pensa cinema. Ed è per questo motivo che nella placida noia di un pomeriggio sulla spiaggia può affiorare la memoria di Eric Rohmer senza che il riferimento sia lezioso. Che nello stormire delle foglie si avverta Renoir o che in un movimento subitaneo sorga Techiné. Pensando cinema, Guadagnino commuove utilizzando lo zoom proprio come lo avrebbe fatto Zurlini (per dire…). Su un freeze frame quasi strappato in un attimo di gioia orgiastica introduce uno scarto musicale che ribalta il senso delle immagini. L’utilizzo del ralenti e di altri effetti fotografici diventano radiografie di un sentire in tempesta costante. Come una geografia emotiva che trova una delle sue esemplificazioni più assolute nelle nature morte – colte con una serie di quadri fissi – toccate dalla notizia dei soldati caduti in Afghanistan. E ancora: la reinvenzione della corsa attraverso il Louvre di Bande à part di Godard che – pensando al Bertolucci di The Dreamers – diventa un attraversamento di Bologna correndo contro l’alba, ridisegnando ancora una volta lo spazio. Tutto lo spazio.

Guadagnino nella sua assoluta e totale libertà, nel giocare contro i formati e l’idea di rifacimento, sovvertendo le regole della televisione seriale, crea con We Are Who We Are la sua opera d’arte totale. Nelle otto puntate, infatti, si ritrova tutto l’universo di un autore che pensa a ogni tassello delle sue immagini e del suo mondo. Senza per questo mai soffocare il movimento del film. Questo, probabilmente, è il risultato più alto ottenuto da Guadagnino: cambiare segno ai “limiti del controllo” per dare vita a un movimento collettivo, inarrestabile. Movimento che diventa il “suo” cinema.

Ed è interessante osservare come We Are Who We Are dialoghi con tutto il resto della galassia Guadagnino. Senza mai ripetere niente di quanto ha già fatto, il regista procede ulteriormente ad allargare le maglie del possibile. Verificare la tenuta del reale. Provocare dolci collisioni. Ed è vero che è tutto “fluido”, ma non sociologicamente, come notazione da dibattito bensì ontologicamente fluido. Guadagnino spalanca dolcemente le porte della percezione.

We Are Who We Are, con il suo sguardo mai visto su un pezzo di Italia mai vista al cinema (un vero e proprio “inconscio italiano”), è oggi tutto il cinema di Luca Guadagnino. Una sorta di film-cervello, o una immensa tela dei desideri, dove ogni elemento, dai capi di abbigliamento ai libri, alle canzoni e alle musiche di John Adams, alle locandine dei film (l’omaggio a Tom Hanks cui si deve “Io sono l’amore”), agli attori stessi, offrono il ritratto attendibile di uno sguardo in transizione, in grado di ridisegnare lo spazio e dare vita ad altri piani di possibilità (in fondo il cinema di Guadagnino è un “mille piani” stratificato…).

E, sì: We Are Who We Are è il “film” più politico e necessario del momento.

Ma questo è evidente.



(9 ottobre 2020)




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