Wojtyla beato, il dissenso di “Noi Siamo Chiesa”

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da noisiamochiesa.org

Il clamore ecclesiastico e mediatico di questi giorni attorno alla beatificazione di Giovanni Paolo II è tale da nascondere agli occhi del grande pubblico il fatto che nella Chiesa non c’è affatto unanimità. Il dissenso su questo avvenimento percorre in modo strisciante molte strutture del mondo cattolico nel mondo. Ciò è la conseguenza del fatto che – a nostro giudizio – il pontificato di Papa Wojtyla ha diviso la Chiesa scegliendo di essa un modello in contrasto con altri che noi riteniamo più vicini all’ispirazione del Concilio Vaticano II. A ciò si aggiunga il dissenso sia per la data scelta, ritenuta inopportuna per la sovrapposizione con la festa dei lavoratori, sia per i tempi abbreviati tra la morte e la beatificazione. Un pontificato, così lungo, complesso, e contradditorio, meritava i tempi necessari, 40 o 50 anni, per valutazioni più serene, condivise e meno emotive.

Si dice che la santità che la Chiesa proclama riguarda l’uomo di preghiera e di fede piuttosto che il papa. Giudicare delle sue virtù o della sua coscienza è difficile per la Chiesa, certamente non lo faremo noi, che, peraltro, apprezziamo la grande personalità dell’uomo e il suo evidente appassionato amore per la Chiesa.

Ma contestiamo che questa proclamazione riguardi soprattutto l’uomo; essa riguarda, e tale appare per come viene proposta e propagandata, il suo ruolo di Pontefice. Per assorbire le posizioni critiche, non si può, per “la contraddizion che nol consente”, santificare solo l’uomo di fede, a prescindere e magari in contrapposizione con il suo ruolo di guida della Chiesa.

Ciò premesso, elementi per una valutazione del pontificato di papa Wojtyla sono già stati ampiamente espressi da “Noi Siamo Chiesa” durante il suo pontificato e, in modo complessivo, alla sua morte (vedi testo allegato); abbiamo poi firmato l“Appello alla chiarezza” del 6 dicembre 2006, condividendo i punti critici in cui si articola, così come i due punti positivi, l’impegno per la pace e il riconoscimento dei peccati della Chiesa. L’Appello fu firmato da 15 teologi di differenti provenienze ed è stato condiviso da tanti altri. Le osservazioni di questo documento non sono state tenute in considerazione alcuna da chi ha gestito il processo canonico, almeno per quanto è di nostra conoscenza.

Ai punti dell’Appello dobbiamo aggiungere, perché venuti alla luce soprattutto in seguito, la passività nel perseguire, all’interno della Chiesa, i reati sessuali contro i minori da parte del clero e la protezione, durata decenni, nei confronti di Marcial Maciel Degollado, fondatore e padre-padrone della Congregazione dei Legionari di Cristo, di cui sono ben noti i comportamenti riprovevoli sotto tanti aspetti.

Dei sette punti dell’Appello vogliamo sottolineare soprattutto il settimo, che riguarda l’isolamento in cui fu tenuto Mons. Oscar Romero, voce dei “senza voce” in Salvador e nel mondo. La sua causa di beatificazione è congelata da tempo, mentre egli viene ormai considerato santo in un intero continente.

“Noi Siamo Chiesa” diffonde oggi, contemporaneamente con molti altri paesi, un testo in cui credenti di tutto il mondo, teologi e associazioni, affermano che il primo maggio pregheranno San Romero de America. Anche se non si fa alcun riferimento alla cerimonia in piazza S. Pietro, è però del tutto evidente che, in questo documento, ci troviamo di fronte ad un altro modo di concepire e di vivere la Chiesa, e che vi si prende atto che in Vaticano ci sono due pesi e due misure.

Nell’ambito di queste riflessioni “Noi Siamo Chiesa” infine vuole esprimere il suo netto dissenso sul significato profondo che ha questa beatificazione. Essa vuole “santificare” il Papato prima dell’uomo Wojtyla e proporre un modello di Chiesa non coerente con il ruolo del popolo di Dio, dei vescovi e del vescovo di Roma indicato dal Concilio. La riflessione critica su questa questione è cosa di ieri e di oggi. Lo scrive Giancarlo Zizola (su “La Repubblica” dello scorso 6 aprile), di cui facciamo nostre la parole e le citazioni. Egli ha scritto: “Bisogna contare le preoccupazioni manifestate fin dagli anni Ottanta dai gesuiti di “Civiltà Cattolica”, che dubitavano che le aureole che il Papato decretava su sé stesso potessero infine accentuare l’aura di trascendenza intorno al papa, conferendo al magistero e al governo del pontefice romano un riverbero quasi divino, come se il papa fosse “un’entità sovra ecclesiale e non avesse, piuttosto, ricevuta la missione di esercitare una missione nella Chiesa e per la Chiesa, e non al di fuori o al di sopra”. I contraccolpi temibili di questa deriva erano indicati nella tendenza all’accentramento, in una versione assolutista della sovranità, in un “piramidismo ecclesiastico che ha visto prolificare le esagerazioni della papolatria e del bizantinismo aulico”, con ripercussioni nefaste –conclude Zizola- sul processo ecumenico”.

Non condividiamo inoltre che questa “santificazione” sia stata decisa dall’immediato successore di Wojtyla, suo principale collaboratore e ispiratore. A noi pare che tutto ciò significhi, indirettamente, una specie di solenne suggello dell’opera, molto contestata, del card. Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede.

Lo ripetiamo come valutazione generale: questa beatificazione è la conseguenza di una decisione presa con insufficiente discernimento, poco sensus ecclesiae e nei tempi sbagliati. Su di essa permane un vasto dissenso anche se, in questi giorni, esso è intimorito e silenzioso.

(28 aprile 2011)

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