8 marzo. Dallo sciopero globale alla coalizione fra native e migranti

Annamaria Rivera

Finalmente l’8 marzo viene sottratto alla banale ritualità del “giorno delle mimose” cui s’era ridotto in anni recenti, per riacquisire il valore di una giornata di protesta, rivendicazione, lotta su scala globale. Sarà uno sciopero contro la violenza di genere, ma anche per l’effettività dei diritti, per l’aborto libero, sicuro e gratuito, per la libertà di movimento, contro il razzismo istituzionale, nonché “contro l’immaginario mediatico misogino, sessista, razzista”.

In Italia non sarà affatto un evento simbolico, bensì una concreta astensione dal lavoro riproduttivo e produttivo – nel settore pubblico come in quello privato – all’insegna dello slogan “Se le nostre vite non valgono, non produciamo” e con la partecipazione di svariate sigle del sindacalismo di base (delle tre grandi centrali sindacali solo la Flc-Cgil ha aderito). Questo sciopero assume un valore particolarmente pregnante nel nostro paese, ove assai accentuata è la discriminazione di genere nel campo del lavoro e del diritto al lavoro. L’ultimo rapporto sul Global Gender Gap (2016) del World Economic Forum, vede l’Italia collocata al 50° posto su 144 Paesi, superata anche da Capo Verde, Ecuador, Trinidad e Tobago… A smentire cliché e stereotipi assai diffusi, tra i dieci paesi che primeggiano per parità di genere (nei campi della salute, dell’istruzione, dell’economia, della rappresentanza politica) vi sono il Ruanda, le Filippine, il Nicaragua.

Alla base di un divario così marcato – tanto più vistoso per il fatto che siamo l’ottava economia a livello mondiale – v’è, per l’appunto, l’enorme disparità soprattutto nel campo dell’occupazione. In specifico, per disuguaglianza salariale il nostro paese scende al 127° posto. Le lavoratrici italiane, infatti, percepiscono mediamente il 30% in meno dei loro colleghi maschi.

Tutto ciò è dovuto non solo alla crescente precarizzazione del lavoro, ma anche a una cultura assai diffusa che costringe tuttora le donne a scegliere tra lavoro produttivo e lavoro riproduttivo. Più in generale, è un effetto dell’impressionante backlash riguardo alle conquiste ottenute un tempo dalle donne italiane, soprattutto grazie al movimento femminista degli anni Settanta. In particolare nel nostro paese, il neoliberismo, la crisi del Welfare State, l’esaltazione del modello del libero mercato hanno significato arretramento in tutti i campi, sul piano dei diritti individuali come di quelli sociali.

Da noi, il peso della gestione domestica e del lavoro riproduttivo grava ancora largamente sulle donne. I servizi e le strutture pubbliche di sostegno alla famiglia, ai bambini e agli anziani sono deficitarie e insufficienti, mentre aumenta progressivamente l’invecchiamento della popolazione. A compensare le inadempienze dello Stato e la mancata, debole o poco diffusa partecipazione degli uomini ai compiti domestico-familiari è il lavoro delle colf e delle assistenti domiciliari, queste ultime dette ormai ufficialmente “badanti”: termine peggiorativo, pronunciato in pubblico per la prima volta da una bocca leghista e largamente acquisito perfino dai dizionari e dalla letteratura scientifica. Sarà perché a fare questo lavoro sono in gran parte donne immigrate?

Com’è ben noto, queste lavoratrici sono spesso malpagate, sfruttate – sul piano lavorativo, talvolta anche personale –, costrette in uno stato di più o meno grave ricattabilità e dipendenza, soprattutto perché dai datori/trici di lavoro dipende anche la possibilità di ottenere e/o rinnovare il permesso di soggiorno. E sono queste lavoratrici a permettere a non poche donne italiane di svolgere occupazioni retribuite, di ottenere così qualche margine di autonomia economica, quindi di autodeterminazione. C’è da auspicare, ma non è affatto sicuro, che anch’esse siano coinvolte nello sciopero globale.

Al centro del quale, come si è detto, v’è il tema della violenza sessista. Le inchieste e i rapporti relativi mostrano che questa “piaga” sociale non è principalmente rigurgito dell’arcaico o pura sedimentazione di strutture e ideologie proprie di sistemi patriarcali. Né è un’anomalia della modernità avanzata o il residuo di tradizioni retrive, destinate a dissolversi presto. Ché, anzi, spesso sono i cambiamenti che investono i ruoli e la condizione femminile a scatenare reazioni maschili violente, fino allo stupro e al femminicidio. Non tutti gli uomini, infatti, sono in grado o disposti ad accettare l’autonomia delle donne, che, anzi, può essere vissuta come minaccia alla propria virilità o al proprio “diritto” al possesso.

Secondo gli ultimi dati disponibili (se pur non recenti), quelli di un’indagine dell’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Unione europea, svolta nel 2012 e pubblicata nel 2014, al vertice della triste classifica della violenza sessista è (o almeno era allora) la Danimarca, con il 52% di donne che testimoniava di avere subìto violenza fisica o sessuale, seguita da Finlandia (47%), Svezia (46%), Paesi Bassi (45%), Francia e Regno Unito (entrambi al 44%). Ciò sembra comprovare che non sempre v’è un rapporto inversamente proporzionale tra conquista della parità e violenza contro le donne, se è vero che – almeno secondo il già citato rapporto sul Global Gender Gap – Finlandia, Norvegia e Svezia sono rispettivamente al secondo, terzo e quarto posto per parità di genere.

Sebbene l’Italia non si collochi al culmine di questa classifica, allarmanti – secondo altre fonti – risultano i dati relativi ai femminicidi. Secondo l’Eures (Istituto di ricerche economiche e sociali), nel decennio 2005-2015 nel nostro paese sarebbero stati 1.740, tutti compiuti nell’ambito di relazioni di prossimità (da mariti, fidanzati, compagni, ex-compagni…).

E a proposito di violenza di genere: non ha forse una connotazione sessista il ripugnante episodio di Follonica che ha visto come aguzzini due smargiassi razzisti (neppure consapevoli d’esserlo) e come vittime due donne rom rinchiuse in gabbia, dileggiate ed esposte al ludibrio pubblico come al tempo degli zoo umani? Eppure nessuno/a tra coloro che hanno commentato e condannato quest’atto ha rimarcato il suo carattere sessista, oltre che razzista.

“Non una di meno” si chiama la rete che ha il merito di aver promosso la grande manifestazione nazionale contro la violenza di genere, svoltasi a Roma il 26 novembre scorso, nonché l’assemblea successiva e quella di Bologna del 4-5 febbraio. Che a loro volta hanno condotto allo sciopero dell’8 marzo. Se sarà fedele al suo nome, essa saprà costruire una coalizione tra native e migranti, capace di trascendere le nazionalità, le culture, le origini, le appartenenze.

Alcuni passaggi di questo articolo sono ripresi da un mio pezzo pubblicato il 6 marzo 2017 in saperescienza.it

(6 marzo 2017)



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