A Lampedusa c’è un lager. Il finto stupore, le consuete retoriche

Annamaria Rivera

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Oggi, perfino i media mainstream evocano i lager per definire le modalità del trattamento antiscabbia imposte ai profughi segregati nel Centro “di primo soccorso e accoglienza” di Lampedusa. In effetti, le immagini proposte dal servizio di Valerio Cataldi per il TG2, realizzate grazie al coraggio di uno degli “ospiti” di quel Centro, ricordano – anche nell’estetica, se così si può dire – le code degli internati nei campi di concentramento: la totale spersonalizzazione, l’umiliazione della nudità di massa, l’esposizione al freddo, perfino la presenza di un omone che dirige l’operazione con la brutalità di un kapò…

Eppure, sin da quando, nel 1998, usammo l’analogia dei lager per definire le strutture d’internamento extra ordinem, inaugurate dalla legge Turco-Napolitano con la sigla Cpt, da ogni parte si è obiettato, fino a ieri, che essa era impropria, iperbolica, infondata. Oggi, dopo un quindicennio di morti sospette, suicidi, maltrattamenti, violenze, rivolte, violazione dei diritti più elementari, qualcuno ammette ciò abbiamo sempre sostenuto: la detenzione e l’internamento amministrativi, avviati da quella legge e realizzati sotto svariate forme e sigle (Cie, Cara, Cpa, Cpsa…), hanno lo status proprio dei lager nazisti, pur con finalità assai differenti. Nel senso che, in via eccezionale e permanente, sospendono, per speciali categorie di persone, i diritti umani e i principi generali del diritto e della Costituzione. Basta dire che neppure a giornalisti e avvocati è consentito entrarvi liberamente.

Quello di Lampedusa, certo, non è ufficialmente un Cie: ne è “solo” una delle tante metamorfosi, dal nome ingannevole. Ancor più deprecabile perché vi sono internate persone perlopiù in attesa di asilo o comunque di protezione, sopravvissute a conflitti, persecuzioni, traumi, sofferenze e in ogni caso al rischio mortale della traversata del Mediterraneo. Persone, quindi, meritevoli del massimo rispetto. E invece no: per lo Stato italiano e per ‘Lampedusa Accoglienza’, l’ente gestore del Cpsa, è normale che esse siano trattate al pari di accattoni molesti, private del comfort e della dignità più basilari, talvolta costrette a dormire e a mangiare per terra.

Nondimeno l’ente gestore – che fa parte di ‘Sisifo’, consorzio aderente alla Lega delle Cooperative– nel solo 2012 ha incassato dallo Stato italiano la somma considerevole di 3 milioni 116mila euro e tuttora continua a incassare somme calcolabili intorno ai 21mila euro al giorno, come ha documentato, tra gli altri, Fabrizio Gatti. Un business non da poco, che rende ancor più bieca questa vicenda vergognosa, il cui senso è restituito alla perfezione dalla replica dell’ente gestore: “Abbiamo seguito il protocollo”, frase che inconsapevolmente allude a ciò che Hannah Arendt definì la banalità del male.

Al contrario di ciò che ha affermato la ministra Cécile Kyenge, noi pensiamo che purtroppo quelle immagini siano degne di rappresentare l’Italia: nel senso che sono perfettamente coerenti con l’ideologia che ha ispirato la politica italiana sull’immigrazione e l’asilo. Nessun governo ne ha voluto non diciamo smantellare, neppure intaccare l’impianto. E’ improbabile che voglia farlo quello attuale, nonostante le buone intenzioni e le promesse di Kyenge, in realtà sempre più vaghe.

Vaga e disinformata è la proposizione, avanzata da giornalisti e commentatori vari, secondo cui tutto si risolverebbe “riformando” o abrogando la Bossi-Fini. Per tornare alla Turco-Napolitano? In realtà, sarebbe necessario un mutamento radicale della normativa italiana che regola l’immigrazione, l’asilo, la cittadinanza, nel contesto di un mutamento di rotta, altrettanto radicale, delle politiche dell’Europa-Fortezza, per usare una formula abusata.

Certo, quel video, possibile, come abbiamo detto, solo grazie alle immagini catturate da Khalid, giovane siriano internato in quel lager, ha ottenuto qualche effetto di rilievo: l’apertura di un fascicolo da parte della Procura della Repubblica di Agrigento, le minacce della commissaria europea per gli Affari Interni, Cecilia Malmström, di sospendere ogni aiuto all’Italia, qualche dichiarazione indignata di rappresentanti delle istituzioni, il suggerimento, da parte di ‘Sisifo’, “di rimuovere e rinnovare il management attuale” di ‘Lampedusa Accoglienza’.

E a tal proposito: come ricordano giuristi assai competenti quale l’avvocata Simonetta Crisci, sarebbe stato obbligo dello Stato impedire che quell’evento e altri simili si verificassero. Infatti, secondo l’art. 40, comma 2, del Codice Penale, non ostacolare un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo. Quindi, a questo punto non sarebbe forse obbligo dello Stato sollevare il Prefetto dalle sue funzioni? Non sarebbe altrettanto doveroso trasferire i profughi, con il loro consenso, in strutture aperte che garantiscano un’accoglienza autentica e il pieno rispetto dei loro diritti?

Anche questa vicenda indegna potrebbe essere presto dimenticata, non appena si saranno spenti i riflettori dei media. Così come ormai archiviati sono la commozione e il “mai più” di circostanza, seguiti all’ecatombe di ottobre nel Canale di Sicilia: 648 vittime in appena otto giorni e la farsa dei finti funerali di Stato per le vittime della strage del 3 ottobre. Perciò auspichiamo che il movimento antirazzista e la società civile democratica moltiplichino le iniziative a sostegno del Comune di Lampedusa, della sua ottima sindaca, Giusi Nicolini, soprattutto dei profughi segregati in quel lager. E che per il momento si riesca almeno a garantire la protezione da ritorsioni a quelli fra loro che dall’interno ne denunciano le infamie, mostrando così ben più coraggio e senso civico di tante autorità, cittadini e politici italiani.

* versione aggiornata e modificata dell’editoriale del manifesto del 19 dicembre 2013

(19 dicembre 2013)



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