Aborto, basta obiezione

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L’aborto volontario, quale che sia il nostro giudizio etico, è un diritto delle donne italiane, sancito da una legge dello Stato, confermata oltretutto dai risultati di un referendum abrogativo che fu respinto a grande maggioranza: tutta la normativa alla quale faccio riferimento si basa sulla tutela della maternità e consente l’interruzione della gravidanza quando esiste un rischio relativo alla salute della donna. Su questo punto si è pronunciata anche la Corte costituzionale che ha ritenuto che l’interesse della salute della madre debba prevalere su quello della salute del feto, poiché lei è già persona mentre lui è solo persona potenziale. Un diritto, dunque, che riguarda la salute e che non può essere misconosciuto o disatteso.
Il numero di medici che potrebbero – in teoria – provvedere a rispondere alla richiesta di interruzione di gravidanza, tenendo anche conto del fatto che si tratta di una domanda in continuo calo, è ampiamente sufficiente. In realtà non è così, a causa del grande numero di medici che hanno fatto e fanno obiezione di coscienza. I dati Istat relativi al rapporto tra offerta potenziale e offerta effettiva di ginecologi relativamente all’anno 2001 sono, a questo riguardo, molto significativi. In due regioni molto diverse, il Piemonte e la Puglia, la disponibilità potenziale era la stessa (48 ginecologi per 100 mila donne di età compresa tra i 15 e i 49 anni), mentre la disponibilità effettiva era di 21 ginecologi per il Piemonte e di soltanto 9 per la Puglia. Leggo in vari documenti che questo divario è in forte crescita ovunque e che molti ospedali stentano a organizzare i servizi necessari, e mi chiedo se la disciplina dell’obiezione di coscienza può ancora restare così come la legge 194 l’ha indicata: forse questo è il punto di questa martoriata legge che deve essere modificato ed è necessario che su questa necessaria modifica si apra un dibattito.
Quando il personale medico – ginecologi e anestesisti – e paramedico non obiettore scende al di sotto di certi livelli, si creano inevitabilmente condizioni che mettono a rischio la salute di un certo numero di donne. Il primo evento sfavorevole che si verifica è l’allungamento dei tempi di attesa, che, con la rarefazione dei giorni di intervento, sposta in avanti il momento nel quale le gravidanze vengono interrotte. Le conseguenze sono duplici: alcune donne scelgono la via dell’aborto clandestino o assumono prostaglandine, cose entrambe che di per sé significano un notevole aumento dei rischi per la salute; per tutte le altre il rischio aumenta automaticamente, perché le probabilità che l’intervento si complichi e abbia effetti collaterali sfavorevoli, immediati o a distanza, sono tanto maggiori quanto più avanzata è la gravidanza. Leggo sui giornali che negli ospedali di Roma l’attesa per l’intervento supera il mese e che i pochi ospedali che accettano di continuare questa attività sono costretti a un lavoro sempre più frenetico, cosa che mal si concilia con la sicurezza. Lo conferma Concita De Gregorio in un articolo apparso su Repubblica il 13 aprile 2007: «In Veneto è difficilissimo interrompere una gravidanza, i medici sono quasi tutti obiettori, gli ospedali fanno aspettare fino al tempo massimo consentito». Insomma, è un’emergenza.
A prima vista sembra che i medici cattolici tendano inconsciamente a scegliere le professioni a maggiore rischio, quelle che presentano problemi morali in maggior copia. In realtà non è così. Ci sono medici che decidono di optare per l’obiezione perché hanno qualche timore nei riguardi delle possibilità di carriera di un «abortista» (ignoro sinceramente se si tratti di timori fondati); altri considerano le interruzioni di gravidanza come una noiosa routine che fa sprecare tempo che potrebbe essere dedicato più utilmente a cose più interessanti e remunerative. Due miei collaboratori, in ospedale, scelsero l’obiezione per questo motivo e me lo spiegarono con molta franchezza.
Sono perfettamente d’accordo con Paolo Flores d’Arcais che, in un uscito su Liberazione il 31 ottobre scorso, ha scritto che la clausola dell’obiezione di coscienza era pienamente giustificata solo ai tempi in cui la legge entrò in vigore: i medici cattolici che lavoravano in ospedale furono sorpresi da un’innovazione alla quale non avevano pensato nel momento in cui avevano fatto la loro scelta e avevano il diritto di dissociarsi. Certo, sarebbe stato lodevole se si fossero impegnati a dedicare il tempo risparmiato a fare informazione sui contraccettivi, un mezzo per dimostrare la coerenza della loro scelta, ma non si può pretendere troppo. Attualmente però, chi sceglie una specializzazione o decide di lavorare in un ospedale pubblico sa bene che cosa lo aspetta, e se lo fa già sapendo di essere ben deciso a ignorare i diritti di molte pazienti (diritti ai quali dovrebbero corrispondere precisi doveri dei medici) utilizza una norma che non era stata scritta per lui, compie un gesto molto discutibile sul piano umano e su quello morale. Forse è bene che io ribadisca un concetto che ho illustrato all’inizio di questo articolo: il tema è quello della salute della donna, si tratta di un problema che non può essere disatteso e di una responsabilità ineludibile.
Nel suo articolo Flores d’Arcais fa molti esempi utili per comprendere l’assurdità della presenza di medici obiettori all’interno dei reparti di ostetricia: il magistrato che ritiene che l’ergastolo debba essere abrogato in quanto punizione eccessiva, il giornalaio che vende solo i giornali che si accordano con la sua visione politica del mondo, il testimone di Geova che decide di lavorare in un pronto soccorso, ma si rifiuta di fare trasfusioni. Si potrebbe continuare a lungo, c’è l’ipotesi del musulmano costretto a vendere carne di maiale e così via. Si tratta dunque di situazioni paradossali, caratterizzate dal fatto che questa specifica opzione del medico ha conseguenze molto gravi sulla libertà della donna di accedere senza disagi aggiuntivi ai trattamenti ai quali ha diritto e che ogni ostacolo che le viene frapposto rappresenta un elemento di rischio per la sua salute e una restrizione di fatto della sua libertà e dei suoi diritti civili e sociali.
Posso immaginare che ci siano stati tempi nei quali questa poteva essere considerata solo una possibilità, una sorta di vaga minaccia. Oggi certamente non è più così, il problema esiste e deve essere risolto, facendo come sempre una scala di priorità e mettendo in primo piano, non ho alcun dubbio in proposito, la salute delle donne.
Immagino che esistano vari modi di affrontare e risolvere questo problema, ma ritengo che sia sempre conveniente scegliere il mezzo più semplice e diretto: che cioè i reparti di ginecologia non arruolino più medici obiettori e che qualsiasi contratto di lavoro, in questi luoghi, vincoli il medico a prestare la sua opera in tutti i casi in cui la salute delle donne è messa a rischio.



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